“Scandalo scommesse? Molto millantato credito” – Raffaele Cantone, intervistato da Giulio Mola, per Quotidiano.net: venerdì 10 giugno 2011.

Dal 1999 al 2007 è stato pubblico ministero presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. “Il pallone e la malavita si incrociano di frequente, soprattutto nei campionati minori, dove la gestione delle squadre porta ai clan grandi vantaggi”

Milano, 10 giugno 2011 – “Il calcio è nelle mani della camorra, almeno fino a quando i clan malavitosi hanno interessi e fanno affari col mondo del pallone”. Non ha dubbi Raffaele Cantone, 48 anni, magistrato napoletano: dal 1999 al 2007 è stato Pubblico Ministero presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, periodo in cui ha condotto le maggiori indagini contro la camorra campana.

L’uomo che ha scritto la parola “mai” sulla data di fine pena dei padrini Schiavone e Bidognetti vive blindato ormai da 8 anni, con cinque agenti di scorta che lo seguono quotidianamente negli spostamenti, anche ora che lavora alla Corte di Cassazione.

Gentile, disponibile, sorriso limpido da uomo giusto, il dottor Cantone si è sempre battuto contro la malavita organizzata raccontando episodi e strategie in alcuni libri, nell’ultimo dei quali (‘I Gattopardi’), dedica un capitolo ai rapporti fra calcio e malavita.

Il suo impegno ha dato parecchio fastidio ai clan, tanto da finire nei progetti criminali del boss Augusto la Torre, che a lungo lo ha fatto pedinare arrivando persino a progettare un attentato nei suoi confronti. Però è riuscito ad assicurare alla giustizia le primule rossi più feroci dei clan scoprendo che fra i loschi affari dei Casalesi e di altri gruppi c’erano proprio quelli che si intrecciavano col pianeta calcio.

“Il pallone e la malavita si incrociano di frequente, soprattutto nei campionati minori, dove la gestione delle squadre porta ai clan grandi vantaggi: consolida il consenso, avvicina alla politica, alle istituzioni, all’imprenditoria. Fra le tante immagini della DDA su usura, estorsioni e partite truccate, non solo quelle emerse negli ultimi giorni, soprattutto nella zona di Castellamare di Stabia veniva dimostrato che esiste una nuova frontiera intorno al sistema delle scommesse, sempre aperto e in tempo reale. Il giro dei soldi è enorme, il fronte tecnologico permette alla camorra di pilotare le puntate, anche nelle corse dei cavalli. E un rischio simile esiste anche nelle corse dei cavalli”.

Dunque, non c’è poi così da stupirsi se il figlio di un boss si fa riprendere ai bordi del terreno di gioco del San Paolo ad assistere ad una partita del Napoli…

“Io non so cosa ci facesse Antonio Lorusso (figlio di Salvatore, ndr), a bordocampo, è strano ma non mi stupisce. La verità è che da sempre la malavita ha interesse a farsi vedere al fianco di campioni, questo serve come “biglietto da visita” per avere maggior potere nel controllo del territorio. Se poi ci sia dell’altro questo non posso dirlo, ma in futuro sarà molto importante vedere a chi sono dati gli accrediti e chi li gestisce”.

Ma lei come è arrivato a individuare i loschi intrecci fra malavita e società di calcio?

“Avevo verificato quanto accaduto in varie indagini, dove c’era la percezione di un doppio interesse della criminalità: da un lato il calcio era uno strumento per creare consenso, e difatti abbiamo visto quanti imprenditori si siano avvicinati a questo mondo; dall’altro non passava inosservato il grande giro di denaro, fra merchandising, bagarinaggio e scommesse, tutte cose che facevano e fanno gola alla criminalità. Gli esempi concreti, in tutte le serie, sono sotto gli occhi di tutti”.

A cosa si riferisce?

“Beh, la storia dell’Albanova è la più datata ma pure la più eclatante. Era gestita dagli Schiavone e al vertice c’era dante Passarelli, titolare di uno zuccherificio che vinceva tutti gli appalti per la refezione delle mense. Il presidente della Mondragonese, invece, era il reggente del clan. E ancora, la vicenda Lazio: per quanto abbia portato a delle assoluzioni, ha dimostrato che ci sono stati legami strani tra malaffare e pallone. Tant’è che mi risulta che nei confronti di Chinaglia ci sia ancora un procedimento in corso, visto che è irreperibile”.

Bisognerebbe ricordarsi più spesso di queste storie, sembra che tutto il marcio stia venendo fuori adesso…

“Ma no! Guardi, quanto accaduto nei mesi scorsi a Potenza è il classico esempio di come una squadra possa essere utilizzata per svolgere varie funzioni in un’ottica criminale: ovvero riciclare soldi, controllare le scommesse e avvicinare ambienti lontani, che invece all’interno di uno stadio diventano più abbordabili”.

Ma possibile che non ci siano interessi veri e propri solo per il pallone?

“Diciamo che ci sono soprattutto interessi personali. Scoprimmo che Pasquale Zagaria, boss dei casalesi, aveva fatto pressioni perché un ragazzo facesse il provino col Parma. Il tentativo non andò a buon fine, eppure Zagaria a Parma aveva attività imprenditoriali e contatti con esponenti di molte città. Vede, quel che per molti è divertimento, per altri diventa solo arricchimento sociale e personale. E le mafie si sono accorte delle potenzialità del calcio e hanno deciso di sfruttarle”.

Ma i calciatori sono consapevoli di quel che succede attorno a loro?

“Il discorso è diverso. Spesso i calciatori hanno rapporti con certa gente per questioni collegate al tifo. Altre volte vengono avvicinati per motivi diversi, ma l’interesse è quasi sempre del clan che vuol prendere prestigio e consensi. Che poi i risultati arrivino o meno poco importa”.

In che senso, scusi?

“Prendete la vicenda dell’Albanova, che pure arrivò a sfiorare la serie C1. In realtà l’interesse dei clan non era meramente sportivo, non interessavano i successi, e difficilmente gli investimenti dei clan portano a grandi risultati. Loro utilizzano il calcio come un autobus da cui scendere quando sono arrivati a destinazione, perciò ogni tanto ci sono squadre che spariscono e imprenditori che non hanno il coraggio o la voglia di investire. Insomma, l’interesse delle mafie è transitorio. Tant’è che l’Albanova e la Mondragonese, società che ho seguito da vicino, sono sparite nel nulla. Ora vi chiedete perché al Sud non nasce un Chievo o un AlbinoLeffe?”

In effetti società modello come queste non ce ne sono…

“Peggio, spariscono pure quelle delle grandi città. In Campania c’è solo un club di A, la salernitana lotta per risalire, la Casertana e l’Avellino sono molto lontano. E in Calabria resiste solo la Reggina, guardate invece che fine ha fatto il Catanzaro… La verità è che la presenza della criminalità organizzata diventa un limite per imprenditori coraggiosi, e i boss hanno fra le mani società piccole e spesso oltre la C2 non vogliono andare”.

Quindi si accontentano di poco…

“E’ quel che basta per soddisfare i loro interessi: un controllo sociale. E il calcio è lo strumento migliore per creare consenso. Anche perché allo stadio ci va il sindaco, e poi assessori, consiglieri, imprese, sanità. E’ questo il vantaggio economico”.

Quindi niente programmazione, nessuna ambizione…

“Direi che la prima cosa, per i boss, è non rimetterci soldi. Ed evitare di esporsi troppo all’esterno per non subire controlli. Poi ci si ferma. L’importante è che certi meccanismi siano ben rodati: quindi è verosimile che qualcuno, soprattutto nei campionati minori, usi una società solo per entrare nel giro delle scommesse. Queste cose nelle serie minori sono pericolosissime, anche perché in certi campionati i controlli sono minori, almeno fin quando non scattano inchieste come sta succedendo adesso, dove viene fuori tutto il marcio. Non dimentichiamoci che le tentazioni sono maggiori, le difficoltà economiche sono evidenti, i calciatori a certi livelli guadagnano molto meno e spesso non vengono pagati per mesi. Perciò arriva qualcuno e se ne approfitta. Però anche qui attenti..”

Ci dica…

“L’inchiesta di Cremona conferma che a volte bastano piccoli gruppi ma ben organizzati per giocare cifre pure non esagerate e falsare le partite. Purtroppo quando si è legalizzato il sistema scommesse, a tutto si è pensato tranne che a valutare possibili controindicazioni. Questa è una grave pecca dello Stato…”

Quando vede prima Maradona, poi Hamsik, quindi Balotelli fotografati con i boss, cosa le viene in mente?

“Sono storie emblematiche. Vede, per i giocatori sono foto come altre, valgono invece molto di più per i camorristi. Con quelle immagini loro provano che possono arrivare a chiunque. E’ un segno di potere. Tutto il resto serve solo a far rumore dal punto di vista mediatico, ed è quello che i clan vogliono. A rimetterci è solo l’immagine del nostro calcio a livello internazionale”.

Scusi, ma i clan come arrivano a Balotelli?

“Grazie a quelli che io chiamo i “gattopardi”. Gente in giacca e cravatta che media offrendo ai clan la possibilità di mettersi in mostra”.

La mafia e la camorra hanno interessi col pallone pure al nord Italia?

“Non escludo che certi personaggi dell’imprenditoria legati alla malavita possano arrivare su, casi ce ne sono stati. Però al sud è più facile accorgersi di certi legami: penso alle squadre siciliane che mettono il lutto al braccio per la morte di un boss, o quelle in Calabria che si fermano per ricordare i capi arrestati”.

Non posso che chiederle un giudizio sull’inchiesta di Cremona…

“Penso ci sia molto millantato credito, ma grossi coinvolgimenti non ne vedo. Anche perché molte gare non sono finite come si prevedeva. Leggendo le intercettazioni sembra di assistere ad una gara a chi la spara più grossa, ma i segnali più inquietanti sono quelli di società minori o singoli gruppetti che vogliono fare affari. Però la mia idea è che se un calciatore commette illeciti, non è giusto che paghi la squadra”.

Com’è la sua vita sotto scorta?

“In otto anni sono cambiate tante cose. Però quattro-cinque volte l’anno alla stadio ci vado a vedere il mio Napoli. Sperando in un calcio pulito…”

“A mezza strada tra politica e clan, custodiva i segreti dell’affare rifiuti”. Rosaria Capacchione da “Il Mattino” di Napoli, in Cronaca, martedì 29 marzo 2011. Sull’ergastolo a Setola ed ai quattro killer che uccisero Michele Orsi.

Lui lo sapeva che sarebbe successo.
Lo sapeva da quando aveva deciso di raccontare la sua verità, sperando di convincere i magistrati che lui no, lui non era un camorrista.
Lo sapeva da quando avevano rubato il camion, nel deposito.
Da quando si era accorto che lo seguivano.
Da quando avevano sparato contro il portone di casa, appena si era saputo che aveva parlato e aveva accusato. Michele Orsi era uno zombie, e molto spaventato.
E lo era ancora di più da quando Peppe Setola aveva obbedito all’ordine di dichiarare guerra allo Stato mettendosi alla guida di un manipolo di killer pazzi ed esaltati, imbottiti di cocaina.
Quel giorno, una domenica di tarda primavera calda quanto un’estate torrida, si arrischiò a uscire da solo e a percorrere quei cinquanta metri che separavano la sua casa, e la sua famiglia, dal Roxy bar.
Era il primo di giugno del 2008 e non ancora avevano sparato a Casal di Principe, non ancora avevano spianato le armi nel paesi di Schiavone e Bidognetti, dove nulla poteva succedere senza il loro consenso.
Era uscito per andare a comprare la Coca Cola alla figlia più piccola, e invece aveva incrociato gli assassini.
Con la sua morte si capì che Setola non era un’avanguardia scissionista ma lo strumento di una strategia di più ampia portata.
E che i registi erano i capi casalesi. Michele Orsi, l’uomo della Ecoquattro, l’imprenditore a mezza strada tra la camorra, la politica e gli affari, morì così: con un recente passato trascorso in carcere, un’accusa per fatti di mafia, un taccuino fitto di appunti e di cose che aveva appena iniziato a raccontare.
Lui, e il fratello Sergio, avevano partecipato all’affare dei rifiuti entrando dalla porta principale, aggiudicandosi un appalto costruito apposta per loro dal consorzio di bacino Ce4.
Loro, nati costruttori, raccoglievano immondizia.
Ma i soldi, i soldi veri, erano quelli che arrivavano dalle discariche che gestivano a Santa Maria la Fossa.
E quelli che ipotecavano raccogliendo, in tempi di emergenza – l’eterna emergenza – la spazzatura napoletana.


Prima di cadere in disgrazia e di essere arrestato, Michele Orsi aveva frequentato i politici casertani, da Mario Landolfi a Nicola Cosentino, che per questa frequentazione si trova a giudizio per concorso esterno al clan dei Casalesi, passando poi dall’altra parte, con i Ds, iscrivendosi pure alla sezione di Orta di Atella per due anni filati.
Ma quando era un uomo ricco e potente, aveva dispensato favori e posti di lavoro a chiunque (che contava) glieli chiedesse.
Aveva scalzato il monopolio di Nicola Ferraro, pure lui imprenditore dei rifiuti, casalese come lui, potente quanto lui, la fedina penale macchiata – pure lui – da accuse di camorra.
E lo aveva fatto dandogli lo sfratto dal Ce4, con quella gara «cucita su misura» che aveva segnato il cambio di gestione dell’impero fondato sull’immondizia. I due si odiavano. Un odio profondissimo.
Oreste Spagnuolo, che prima di pentirsi aveva condiviso un pezzo di strada con Giuseppe Setola, ai magistrati della Dda ha raccontato di una cena alla quale avevano partecipato sia Setola, sia Luigi Ferraro, fratello di Nicola: «Gigino parlava per conto del fratello quando si incontrava con Setola. Peppe Setola disse testualmente: ”Digli a tuo fratello di non preoccuparsi perché fra due giorni ti facciamo un bel regalo”. Gigino Fucone disse a Setola che Orsi aveva reso dichiarazioni contro il fratello di Ferraro Luigi».
Sarà una coincidenza, ma due giorni dopo Michele Orsi fu ammazzato.
Agghiacciante la ricostruzione dell’agguato fatta attraverso le parole di Oreste Spagnuolo.
Il commando era partito da Varcaturo intorno alle 9,30 del mattino, quando era arrivata la prima telefonata di Mario Di Puorto, incaricato di seguire Orsi per chiamare la battuta.
Nell’Alfa 147 c’erano Setola, Letizia e Alessandro Cirillo.
Oreste Spagnuolo era rimasto a casa, come aveva deciso il capo.
Arrivarono a Casale in sette minuti, poi si appostarono in una casa poco lontana da quella di Michele Orsi.
Quando Mario Di Puorto telefonò per la seconda volta, arrivarono in un minuto al Roxy bar: «Dall’auto – racconta Spagnuolo – scesero Setola e Letizia mentre Cirillo attendeva alla guida.
Setola entrò nel bar e sparò subito ad Orsi, che cercò di scappare.
Ma fuori c’era Letizia che gli sparò avendolo di fronte, colpendolo alla testa con una 357 Phyton.
Letizia prima di partire, si mise una parrucca e gli occhiali, Setola agì senza camuffamenti».
Spagnuolo non aveva assistito all’omicidio, ma aveva ascoltato le parole di chi aveva sparato e che aveva visto partire da casa a bordo della 147.
Emilio Di Caterino, un altro collaboratore di giustizia, ha aggiunto: «L’omicidio è stato deciso da Setola.
Michele Orsi doveva morire perché aveva iniziato a rendere dichiarazioni collaborative con la giustizia nella materia dei rifiuti». Se avesse continuato, chissà quante altre, e importantissime, teste sarebbero saltate.

Raffaele Cantone intervistato da Gianluca Di Feo per L’Espresso: “La mia Gomorra”, 6 novembre 2008.

Per i casalesi era il nemico numero uno ben prima che uscisse “Gomorra”.
Forse perchè è nato in quella terra che la camorra ha devastato e sa entrare nella mentalità dei boss campani. Forse perchè è un magistrato che cerca sempre di capire e vuole guardare oltre le spiegazioni di comodo.

Lui, i padrini casalesi li ha guardati negli occhi e li ha fatti condannare: gli Zagarìa, gli Schiavone, i Bidognetti, ultime star dell’epica criminale italiana. Ma sopratutto ha cercato di tagliare il loro legame con l’economia perchè sa che i nuovi boss sono già diventati impresa. Lo ha fatto per dieci anni, combattendo assieme ai suoi colleghi con la scarsità di risorse e la drammatica inefficienza dello Stato. Lo ha fatto quando anche  a Napoli i casalesi erano considerati un pericolo lontano. E la cavalleria è arrivata dopo che lui ha lasciato Fort Alamo, facendo della mafia casertana una priorità nazionale.     

“La Campania tornerà ad essere  un paese normale?” 
<<Razionalmente direi che è molto difficile. E la provincia sta molto peggio di Napoli. Ma non possiamo arrenderci. Perchè ci sono tante persone che credono nella legalità. Il cemento della speculazione ha cancellato i terreni, la campagna è diventata una sterminata città dormitorio dove è stata annichilita ogni identità. Io resto a Giugliano, il paese dove sono nato, sognando che le cose possano cambiare>>.

Cantone è un magistrato fuori dagli schemi.
<<Non ho mai avuto visioni stataliste>> – spiega – <<Volevo fare l’avvocato per sentirmi libero. Poi ho capito che potevo essere libero anche come pubblico ministero, muovermi secondo criteri di libertà intellettuale, mentre come avvocato devi seguire anche tesi in cui non credi>>.  

(Estratto da “La mia Gomorra”. Raffaele Cantone intervistato da Gianluca Di Feo, per L’Espresso, 6.11.08. FOTO DI ANTONIO CALAMO).