“Infiltrazioni mafiose? Il rischio esiste, ma lo Stato non può dichiarare la resa” – Raffaele Cantone intervistato da Guido Ruotolo, per La Stampa di mercoledì 7 marzo 2012

Il rischio c’è. E’ inutile girarci attorno. Alla mafia un appalto di 2 miliardi e 800 milioni fa gola. Anche le sue briciole, intendiamoci. Se ve ne fosse poi bisogno, per la prima volta nella storia del Piemonte, ben tre comuni in provincia di Torino sono in attesa del lavoro dei commissari che dovranno verificare se e che dimensione hanno i condizionamenti della ‘ndrangheta nelle amministrazioni comunali».

Prende fiato Raffaele Cantone, il pm di «Gomorra» (minacciato con Roberto Saviano e la giornalista Rosaria Capacchione dai capi dei Casalesi): «E, dunque, siamo in attesa della decisione del governo sul possibile scioglimento delle tre amministrazioni: Chivasso, Leinì e Rivarolo Canavese. C’era stato il precedente di Bardonecchia, è vero, ma mai tre comuni contemporaneamente».

Cantone, lo Stato deve accettare la sfida?

«La mafia c’è e si è infiltrata nella pubblica amministrazione anche in Piemonte. Prendere atto di questo non significa fermarsi: le opere pubbliche bisogna farle, lo Stato non può dichiarare la resa».

E’ davvero ineluttabile la presenza della mafia nei lavori della Tav?

«Non lo credo, non lo voglio credere. Possiamo evitarlo. Dico subito che oggi lo Stato è più attrezzato con strumenti e leggi. Semmai, e questa è una proposta che mi sento di fare, si potrebbe creare una task force di polizia giudiziaria che vigili sull’esecuzione delle opere della Tav».

Chiarisca la proposta. Chi dovrebbe far parte della task force e per fare cosa?

«Oggi il problema principale è soprattutto quello della verifica di chi materialmente esegue i lavori. Oggi le mafie controllano le imprese pulite. L’inghippo si realizza nella fattura materiale delle varie fasi del lavoro nei cantieri. Chi materialmente mette a disposizione i mezzi per la movimentazione terra, per esempio?».

Come accertiamo la correttezza delle procedure e la genuinità della partecipazione delle imprese pulite ai lavori?

«Intanto, investigatori della Finanza, della Dia, la divisione investigativa antimafia, e magistrati della Procura nazionale antimafia dovrebbero procedere a verifiche non formali, a veri e propri blitz nei cantieri. Da questo punto di vista il passato ci è di conforto».

In che senso?

«Dai lavori della Tav in Campania al raddoppio della Salerno-Reggio Calabria – che è stato definito il “più lungo corpo di reato” -, abbiamo la certezza che la camorra o la ‘ndrangheta non sono intervenute nei meccanismi formali dei lavori ma nella fase esecutiva. Ricordavo prima del noleggio dei mezzi per la movimentazione terra o per il trasporto di macchinari o, aggiungo, alle forniture di ferro e cemento. Il nostro problema non è solo quello di controllare le “carte”, i contratti, le visure catastali, ma chi materialmente porta a termine i lavori».

Senta giudice, l’esperienza ci porta a diffidare ormai dello strumento della certificazione antimafia come l’antidoto antiinfiltrazione.

«E’ vero, la procedura per il rilascio del certificato così com‘è presenta una falla. Non è più sufficiente concentrarsi sulle figure che fanno parte degli organismi amministrativi delle imprese. Non è sufficiente l’amministratore delegato o il cda stesso. L’indagine deve essere più pervasiva e giungere ad individuare e analizzare i reali proprietari, titolari delle imprese».

Lo scrittore Roberto Saviano afferma che il Paese non è in grado di garantire che la Tav non diventi la più grande miniera per le mafie….

«Giusta la sua preoccupazione sul rischio di inquinamento mafioso. Ma possiamo rinunciare a un’opera solo perché c’è un rischio? Rinunciare sarebbe una sconfitta che lo Stato non può accettare».

Prima parlava di leggi e strumenti che oggi ci consentono maggiori controlli…

«Questi poteri di controllo ci sono. E consentono di verificare in astratto la regolarità dell’opera. A metà degli anni ‘90, l’inchiesta della Procura di Napoli sugli appalti della Tav, accertò la presenza asfissiante di Gomorra. Pasquale Zagaria poteva contare sui rapporti con il mondo istituzionale e politico di tutti gli schieramenti. Ecco, il problema è anche questo».

“Far guadagnare le imprese con la legalità” – Raffaele Cantone ne L’analisi, su Il Mattino di Napoli, ed. naz. di mercoledì 29 febbraio 2012

In sede di esame del decreto legge sulle liberalizzazioni, in commissione industria del Senato, è passato un emendamento che, secondo le dichiarazioni della senatrice Vicari, introdurrebbe “l’elaborazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in raccordo con i ministeri della Giustizia e dell’Interno, di un parametro che misurerà il livello di legalità delle imprese”.
Tradotta la formula apparentemente incomprensibile nel linguaggio corrente, significa che, una volta che la norma sarà approvata nei passaggi parlamentari successivi, verrà introdotto il cosiddetto rating della legalità. Diventerà, quindi, legge la proposta da tempo avanzata da Confindustria soprattutto siciliana; le imprese, cioè, oltre a essere valutate per il fatturato, la capacità dei manager e, ovviamente, per la loro solvibilità, riceveranno una specie di pagella relativa al rispetto della legalità.
Allo stato, pur nell’estrema genericità del parametro di riferimento (la legalità è un concetto tanto ampio e, per dirla con don Luigi Ciotti di Libera, anche troppo spesso “abusato”), è già possibile avanzare qualche prima valutazione.
L’idea dei proponenti l’emendamento è quella di consentire di valutare i comportamenti tenuti dall’impresa nei confronti della criminalità organizzata, riconoscendo un rating particolarmente favorevole a quelle che non solo non risultano in nessun modo in collegamento con ambienti mafiosi, ma che abbiano dimostrato con fatti concreti di volersi opporre ad essa.
Diventerà, quindi, un “merito” imprenditoriale denunciare richieste estorsive, dirette (e cioè il versamento del cosiddetto “pizzo”) o indirette (ad esempio, di assunzione di personale, di acquisto di materiali da fiduciari dei clan, di concedere subappalti o noli etc.).

La valutazione favorevole in termini di legalità dovrebbe avere conseguenze significative sul piano concreto; renderebbe, infatti, più facile l’accesso al credito e ad agevolazioni pubbliche e consentirebbe di essere inseriti in una sorta di “lista dei buoni” (la cosiddetta “white list” da contrapporre alla “black list”) cui potrebbero attingere investitori internazionali o grandi ditte nazionali o estere interessate per affidamenti di lavori, appalti e/o incarichi.
La novità legislativa, così come prospettata, è sicuramente intelligente ed innovativa e su di essa va dato un giudizio ampiamente positivo.
La forza delle mafie, come è ormai noto a tutti, sta soprattutto nella loro smisurata disponibilità economica e nella conseguente loro capacità di coinvolgere pezzi del mondo imprenditoriale e professionale.
Rispetto a tale forza di traino, il richiamo a valori meramente morali o persino al rischio di un coinvolgimento in indagini penali non sono, purtroppo, controspinte da sole sufficienti; c’è bisogno di una sorta di rivoluzione copernicana, riassunta in uno slogan caro a molti esponenti dell’antimafia sociale e cioè “rendere conveniente la legalità”. E premiare sul piano imprenditoriale chi si comporta bene, e lo dimostra con i fatti concreti, risponde a questo obiettivo!
Il nuovo istituto per funzionare, però, richiederà una serie di indispensabili condizioni.
La prima, di esse riguarda i parametri di valutazione del rating; essi dovranno essere particolarmente approfonditi (lo screening non potrà limitarsi, a d esempio, solo a coloro che rivestono le cariche sociali, ma dovrà riferirsi a titolari effettivi delle imprese), ma anche oggettivi, per evitare il rischio che criteri troppo discrezionali ed elastici consentano di dispensare valutazioni positive (anche) agli “amici”, piuttosto che ai (soli) meritevoli.
E, inoltre, il “rating” non deve tradursi in un ulteriore appesantimento per le imprese, dovendosi necessariamente raccordare, per evitare inutili duplicazioni, anche con altri “indicatori” della legalità delle attività economiche. Mi riferisco, in particolare, al rilascio della certificazione antimafia, strumento indispensabile per il contrasto della delinquenza organizzata ma spesso una vera croce per gli imprenditori a causa dei tempi lunghissimi degli accertamenti e dell’eccesso di burocrazia che la contraddistingue.

Bisognerà, quindi, capire il modo in cui il principio sarà effettivamente declinato per esprimere un giudizio definitivo; solo in quell’occasione sarà possibile davvero capire se l’ottima idea si sia stata tradotta in un altrettanto valida applicazione o se, invece, – come scaramanticamente incrociando le dita non ci auguriamo – nel semplice (ennesimo) slogan pubblicitario, senza effetti benefici nel contrasto alle mafie.