“Ora la legge anti corrotti” – Raffaele Cantone*, su l’Espresso, venerdì 10 febbraio 2012

Oggi punire le tangenti è più difficile che vent’anni fa. Servono subito  regole efficaci contro le cricche e sui fondi dei partiti. O l’Italia  sarà tagliata fuori dall’Europa.  

Sono passati vent’anni esatti da quel 17 febbraio del 1992 quando, con l’arresto in flagranza dell’ingegnere Mario Chiesa, cominciarono le indagini di Tangentopoli. Tante cose sono accadute in Italia in questi anni, ma nessuno si azzarderebbe oggi a dire che la corruzione è stato debellata o quanto meno riportata entro i confini fisiologici tipici delle democrazie occidentali.
Se ci si limitasse alle sole statistiche giudiziarie, il quadro sembrerebbe roseo; si è passati, ad esempio, dalle 1.700 condanne per corruzione del 1996 alle 236 del 2006. Ben diverso, però, è quanto ci dicono gli attendibilissimi dati forniti dagli organismi internazionali. Secondo una rilevazione del 2010 del “Global corruption Barometr” di Transparency international, il 13 per cento dei cittadini ha dichiarato di aver pagato nell’anno precedente tangenti (contro una media europea del 5 per cento) e dati molto simili sono stati forniti dall’Eurobarometro nel 2009.
Nella classifica internazionale della corruzione siamo scesi al 63 posto in negativo, lontani dagli altri Stati europei.

Questi numeri sono condivisi da gran parte degli operatori economici e sono persino riscontrati da efficaci trasmissioni tv di intrattenimento: “Striscia la notizia” ad esempio ha mostrato come al catasto di Napoli esistesse un sistema consolidato per cui bastava pagare 20 euro per ottenere subito atti che richiedevano tempi più lunghi, senza che i dirigenti si accorgessero dell’andazzo. E questi dati rendono indiscutibile come non solo le statistiche giudiziarie siano fallaci ma che anzi in modo preoccupante denuncino l’inefficacia della prevenzione e repressione della corruzione. Una realtà nota da tempo agli addetti ai lavori, ma sottovalutata dal Parlamento e dalla politica in generale, che si spiega con una pluralità di cause.
In estrema sintesi, una prima ragione è evidenziabile nei mutamenti strutturali del fenomeno corruzione; i pacchi di soldi portati a Mario Chiesa sono un ricordo del passato; il ripetersi ai giorni nostri di essi è quasi divenuto un fatto oleografico: come non ricordare l’episodio di un anno fa del consigliere comunale di Milano che si faceva portare le banconote nascoste in un pacchetto di sigarette.

Oggi gli amministratori pubblici non ricevono quasi più denaro, ma prestazioni di altro tipo (ad esempio i famosi “massaggi” offerti al responsabile della Protezione civile); incarichi lucrosissimi ma formalmente regolari; consulenze milionarie affidate oltre che a loro stessi, a familiari o persone di loro fiducia. Inoltre è molto più difficile individuare un compenso concesso in cambio di singoli atti: esistono sistemi “gelatinosi” nei quali i pubblici funzionari vengono “assoldati” da cricche affaristiche, divenendo per esse disponibili, a prescindere dal singolo appalto. È un’evoluzione che oltre a non rendere identificabile un atto di specifico favoritismo (necessario, comunque da individuare perché la norma penale sulla corruzione, risalente al 1930, lo ritiene indispensabile) genera un sistema di impenetrabile omertà che non è esagerato paragonare a quella mafiosa.
L’altro aspetto attiene alle défaillances della legislazione che si è modificata in peggio rispetto a quella (non certo perfetta) vigente negli anni di Mani Pulite; non è possibile scendere nei tecnicismi ma è dato inconfutabile che molti reati spia – quelli cioè che rendono capaci di individuare le malversazioni pubbliche – sono stati svuotati di contenuto: il reato di abuso di ufficio è divenuto meno stringente; il falso in bilancio quasi integralmente depenalizzato; i reati fiscali ridotti a ipotesi marginali. Ci sono poi i tempi di prescrizione dimezzati, tanto da rendere quasi impossibile le condanne per le vicende più gravi. E a queste modifiche sul piano sostanziale si aggiungono quelle processuali: il principio del “giusto processo” non consente più nessuna forma di utilizzo contro altri delle dichiarazioni confessorie, se non ripetute nel dibattimento.
È chiaro che per invertire il trend e scalare posizioni nelle classifiche internazionali – cosa che non ha un rilievo puramente simbolico, ma un’incidenza economica visto che esse influenzano gli orientamenti degli investitori internazionali – sarebbe indispensabile intervenire su più fronti, anche su quelli che non riguardano direttamente la corruzione.
Penso ad esempio, ad una legislazione che regoli le lobby o individui statuti vincolanti per i partiti politici – l’incredibile e inquietante vicenda del tesoriere della Margherita è l’ennesimo segnale in questo senso – che riveda il sistema dei controlli sulle attività degli enti locali; che regoli i conflitti di interesse dei pubblici amministratori.
Ad oggi, però, l’unica legge che potrebbe essere approvata è quella sulla corruzione: il disegno di legge del precedente governo Berlusconi, da gran parte degli studiosi ritenuto insufficiente, è in discussione presso le commissioni della Camera e il governo Monti ha promesso di intervenire per renderla più credibile e convincente.
La Commissione predisposta dal ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi (a cui ho l’onore di partecipare) ha già indicato alcune linee di intervento che possono favorire l’attività di prevenzione interna da parte delle amministrazioni: si va dal rafforzamento dei poteri delle autorità di controllo, alla previsione della necessità dell’autorizzazione per ricoprire incarichi esterni, alla tutela di chi denuncia gli illeciti, all’individuazione di sanzioni disciplinari per chi con compiti direttivi non controlla.
Ad oggi, invece, non si sa ancora quali saranno le eventuali modifiche relative alla repressione penale che spettano al ministero della Giustizia e se si inciderà sugli snodi davvero sensibili che l’attuale disegno di legge non affronta: in particolare i tempi di prescrizione che rendono spesso inutili i processi sulle tangenti, la previsione di nuove ipotesi di reato per punire le nuove realtà della corruzione, l’individuazione di meccanismi di premialità per chi denuncia e collabora, il rafforzamento delle pene accessorie contro i condannati per impedire che tornino a occupare incarichi pubblichi.

A vent’anni da Tangentopoli una legge sulla corruzione sarebbe certamente un segnale importante ma su questo fronte non ci si può più accontentare di manifesti propagandistici. Ben venga una nuova legge se fornisce strumenti di prevenzione e contrasto utili; in caso contrario ci si sarebbe forse da augurarsi che nulla cambi, perché una qualunque normativa priva di efficacia rischierebbe di ottenere l’effetto opposto. E rendere improbabile che la questione della corruzione venga affrontata in modo convincente nei prossimi anni. Il rischio è che nel ventesimo anniversario dell’arresto di Mario Chiesa l’Italia si ritrovi ancora lontana dall’Europa della legalità.

 * Si ricorda al lettore che Raffaele Cantone è attualmente membro della Commissione per la trasparenza e la prevenzione della corruzione del Ministero della Funzione pubblica

“Decalogo contro la corruzione” – Raffaele Cantone su “l’Espresso”, n. 40 (6 ottobre 2011)

Nello stesso giorno in cui la maggioranza dei deputati negava l’arresto di un parlamentare accusato di corruzione, nella Commissione giustizia di Montecitorio proseguiva lentamente la discussione del nuovo disegno dilegge anticorruzione: un provvedimento  che viene giudicato un pannicello caldo di fronte alla gravità del problema.
L’attenzione nel nostro Paese per la corruzione può essere paragonata ad un fiume carsico.
Non se ne parla per lunghi periodi, malgrado le relazioni della Corte dei conti o i documenti di organismi internazionali evidenzino ogni anno l’estensione del fenomeno.
Di tanto in tanto, poi, il rigagnolo sotterraneo fuoriesce potente.
E il ritorno dell’interesse coincide sempre con fatti di cronaca così clamorosi da non passare inosservati, come l’arresto lunedì scorso di un assessore di Parma accusato di mazzette per le forniture delle mense scolastiche e già interrogato in passato per i rapporti con camorristi.
Vent’anni fa le indagini di Mani Pulite svelarono un sistema corruzione generalizzata. L’entusiasmo della cittadinanza, che sperava di vedere scomparire la rete delle mazzette, nel corso del tempo si è trasformato in delusione o peggio sfiducia.
Da un lato, si è fatto credere che i processi e le condanne avevano annientato il male; dall’altro, ci si è mossi rimarcando soprattutto gli inevitabili errori che pure c’erano stati.
Tangentopoli è divenuta, per qualcuno, il simbolo del terrore giacobino e giustizialista.
Le indagini, al di là di ogni valutazione di merito, avrebbero comunque dovuto imporre ad una democrazia matura di introdurre gli anticorpi per il futuro. Invece tutto l’apparato dei controlli è stato smantellato o reso inefficace.
Partiamo dal basso, ossia da ciò che è avvenuto negli enti locali. C’è un dato innegabile: gli organi di controllo rappresentati dai Coreco, lotti zzati politicamente e senza garanzie di indipendenza, avevano dato pessima prova e si è ritenuto, in modo incomprensibile, di abrogare integralmente il sistema dei controlli piuttosto che di individuarne altri che sterilizzassero gli inconvenienti.
Inoltre, sempre in nome dell’efficienza, si è aggirato quel meccanismo certamente farraginoso che è la normativa sugli appalti, creando le famigerate società miste pubblico-private con consigli di amministrazione debordanti di uomini nominati dalla politica che, sganciati spesso da ogni forma di sorveglianza, hanno gestito le risorse pubbliche in modo tutt’altro che trasparente.
Negli appalti si è verificata una vera e propria rivoluzione copernicana con effetti paradossali. Mutuando ciò che avviene per le aziende private, i controlli in molte occasioni – come nelle Soa, ossia le società organismi di attestazione – sono stati affidati ad entità non pubbliche, con un criterio che è il contrario dell’indipendenza e dell’efficienza: i controllori scelti e pagati dai controllati!
Sul piano giudiziario si sono rese più complicate le attività investigative sui reati contro la pubblica amministrazione. Gli interventi sull’abuso di ufficio e sui reati fiscali, fino alla depenalizzazione di molti aspetti del falso in bilancio, hanno limitato o escluso l’intervento dei magistrati.
E si è anche ridotto il termine di prescriziopne per la corruzione: una scelta che ha vanificato indagini sulle tangenti anche di grande importanza, finite nel nulla nonostante fossero provati vasti giri di mazzette. Invece gli strumenti di controllo preventivo, alternativi a quelli giudiziari e tanto pubblicizzati, non sono mai stati dotati di poteri reali; chi si ricorda, ad esempio, di attività significative svolte dalla cosiddetta Authority contro la corruzione?

Mentre per quasi vent’anni è stato fatto di tutto per annichilire prevenzione e repressione, la corruzione è cambiata.
Le inchieste più recenti, molto a macchia di leopardo, stanno dimostrando come la corruzione tradizionale della mazzetta consegnata al burocrate o al politico sia un ricordo del passato. Come ha più volte evidenziato il giudice Piercamillo Davigo, gli arresti del passato hanno aguzzato l’ingegno e favorito un’evoluzione della specie.
Oggi le forme attraverso cui il mercimonio degli uffici avviene vanno da quei sistemi definiti gelatinosi – in cui pubblici funzionari ed imprenditori sono in rapporti intrecciati di affari – fino a tecniche quasi geniali, come l’occultare la tangente dietro una caparra per una vendita di un bene che non si comprerà mai.
Di fronte a questa situazione chemina l’efficienza e la credibilità dielle istituzioni, determinando la fine del libero mercato in molti settori dell’economia e un costo per tutti i cittadini, la reazione della classe politica è costellata di soli propositi.
E’, invece, indispensabile ed urgente mettere in cantiere una riforma complessiva, che contenga un mix di misure che riguardino sia l’aspetto repressivo penale che quello preventivo, anche mutuando i suggerimenti di organismi internazionali cui l’Italia ha aderito, come il Greco (Group d’état contre la corruption). Su 22 “raccomandazioni” trasmesse al governo dal Greco, ne risultano eseguite meno della metà.
Per il controllo giudiziario, andrebbe prevista accanto alla norma sulla corruzione – che richiede di individuare uno specifico atto oggetto delpatto criminale – una sul “traffico di influenze” che consentirebbe di punire quei pubblici ufficiali che si mettano a disposizione di privati, dietro corrispettivo, anche a prescindere dal compimento di un’attività: è l’unico deterrente contro il proliferare di comitati d’affari come le varie cricche, le P3 e le P4 emerse nelle ultime inchieste. Bisognerebbe, inoltre, intervenire sui termini di prescrizione, che sono divenuti talmente brevi da rendere inutile ogni indagine: è impossibile arrivare alla conclusione dei tre gradi di giudizio, l’impunità ormai è pressoché certa. Ci vorrebbero poi tutele per chi denuncia: troppo spesso chi si espone rischia oltre all’incriminazione anche di essere escluso di fatto per il futuro dai rapporticongli enti.
Mentre non dovrebbe essere consentito mai a chi è stato condannato per reati gravi di rimanere nella pubblica amministrazione.
Le norme sulla corruzione andrebbero poi estese, con le dovute garanzie, anche ai privati; è un inaccettabile paradosso che se si corrompe un funzionario con 50 euro per ottenere più velocemente un certificato si è puniti ed invece non è sanzionata la tangente ad un manager per ottenere appalti milionari da parte di una multinazionale.
Ma occorre un impegno anche sul piano della prevenzione. Creare sistemi di controllo sulla spesa degli enti locali, affidati a organi che diano garanzie di indipendenza, senza che divangano intralci burocratici.
La pubblica amministrazione non è tutta nelle mani di fannulloni e corrotti: ci sono persone oneste ed efficienti, energie positive che vanno valorizzate.
Molti segretari comunali – prima che il loro ruolo venisse riformato – sono stati la migliore sentinella del malaffare.
In questo campo si dovrebbe copiare le aziende, che introducono nei contratti clausole per impedire che i propri manager vadano subito a lavorare per la concorrenza: va limitato ilpassaggio da alti incarichi dirigenziali pubblici al privato.
Ultimo punto, redditi e proprietà dei dipendenti pubblici e dei loro familiari, entro un certo grado, dovrebbero confluire in una sorta di anagrafe tributaria che consenta di monitorare arricchimenti troppo rapidi.
Sul conflitto di interessei andrebbe prevista una disiplina efficace, che prescinda dalle polemiche spesso strumentali che hanno riguardato ilpremier: ci sono nel rapporto pubblico-privato tantissime ipotesi di conflitto di interesse che minano l’imparzialità delle istituzioni.
Gli enti, soprattutto quelli territoriali, dovrebbero smettere di fare gli imprenditori; quanto sta emergendo sulla vicenda dell’acquisto delle azioni dell’autostrada Serravale da parte della Provincia di Milano, dimostra i rischi clamorosi di distorsioni.
Per i partiti politici, andrebbe individuato un sistema di finanziamento trasparente: bilanci certificati ed in cui sia chiaro in che modo giungano fondi, senza più zone d’ombra. E’ anche arrivato il momengto di regolare le lobbies, facendo tesoro delle legislazioni degli altri Stati occidentali; se è vero che una moderna economia non può fare a meno di intermediazioni, anche tecniche, nei momenti decisori istituzionali da parte dei portatori di interessi, è altrettanto indispensabile che esse si manifestino in modo limpido e non come è avvenuto fino ad oggi.
Riforme ambiziose? La situazione del paese, con una crisi economica che impone sacrifici per decine di miliardi e il crollo di credibilità delle istituzioni documentato dagli ultimi sondaggi, richiede medicine amare.
Di certo, non le norme del disegno di legge voluto dal centrodestra che oggi viene lentamente discusso nella Commissione Giustizia: quelle sono aspirine, che non possono curare un male così esteso.  

“Questione morale, l’argine che manca” – Raffaele Cantone, su “Il Mattino” di Napoli, ed. naz. di sabato 16 luglio 2011.

Nella giornata di ieri, dopo una convulsa riunione, la Giunta della Camera ha autorizzato l’arresto di un parlamentare, già magistrato, indagato per gravi delitti, quali la concussione, la rivelazione del segreto di ufficio ed il favoreggiamento; sarà, poi, la camera in seduta plenaria a stabilire se davvero potrà essere eseguita l’ordinanza cautelare del gip di Napoli.
Nei prossimi giorni il medesimo organo sarà chiamato a pronunciarsi sull’arresto di un altro onorevole, già ufficiale della guardia di finanza, indagato per corruzione, associazione a delinquere e rivelazione del segreto di ufficio.
È di questi giorni la formalizzazione della richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa per un ministro, all’esito del rigetto, da parte del Gip di Palermo,di una richiesta di archiviazione del pm.
All’udienza preliminare si stabilirà se dovrà essere o meno processato e sarebbe, credo, il primo caso di un ministro in carica a giudizio per mafia.

In parlamento siedono altri due membri, un deputato della maggioranza ed un senatore dell’opposizione, raggiunti da provvedimento restrittivo rispettivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione, a cui le camere di appartenenza hanno negato l’autorizzazione all’arresto; continuano ad esercitare il loro mandato mentre si difendono nelle aule di giustizia.
Proprio ieri si è conclusa la vicenda di un senatore eletto nelle circoscrizioni estere, condannato con patteggiamento a cinque anni di reclusione. Era stato raggiunto prima da un’ordinanza per truffa e falso (non era realmente residente all’estero) e poi per associazione a delinquere e frode fiscale. Si era dimesso prima che la Camera autorizzasse l’arresto.

Il Mattino ha svelato in questa settimana che altro deputato, che riveste anche la delicata carica di presidente della provincia di Napoli, sarebbe indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto accusato da alcuni pentiti di legami con i casalesi; per un altro parlamentare, pure campano, eletto nelle fila dell’opposizione e poi passato nelle fila della maggioranza è stata già avanzata richiesta di rinvio a giudizio, per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso.
È bene ricordare che le vicende citate – le più note e quelle di cui serbo ricordo – si riferiscono in gran parte ad imputazioni non tradottesi in sentenze definitive e quindi per esse vale in pieno la presunzione di innocenza.
Eppure la gravità e rilevanza delle accuse spingono a qualche considerazione, soprattutto perché riguardano rappresentanti dei cittadini, che siedono nelle assemblee legislative che dovrebbero essere trasparenti come case di vetro.

C’è evidentemente un problema di selezione dei parlamentari, ed esso appare ancora più preoccupante se si pensa che il sistema elettorale – passato nella vulgata come porcellum – non prevede una scelta effettiva da parte del corpo elettorale; ci sono liste bloccate ed il posizionamento nella parte alta delle stesse da la certezza dell’elezione.
Alla luce di quel che avviene oggi, non appare considerazione malevola quella di chi fa notare come certe “nomine” siano state quantomeno poco ponderate o inopportune.

Ma c’è un altro argomento che non può essere più esorcizzato; il tema della cd questione morale; dopo l’esplosione all’inizio degli anni 90 di Tangentopoli ed il ricambio quasi completo della classe dirigente politica, l’argomento è stato velocemente rimosso, dandosi per scontato che i germi patogeni del malaffare, della corruzione e delle collusioni fosse stato estirpato in via giudiziaria. Anzi, da parte di alcuni esponenti della politica si è considerata quella come una stagione giustizialista, quasi ad intendere che molti innocenti furono ingiustamente accusati e condannati, tanto che alcuni di essi sono stati rapidamente riabilitati, dedicando persino loro vie o piazze, come se fossero eroi nazionali.
Poco o nulla è stato fatto, invece, per prevenire il rischio che quei fenomeni si ripresentassero sotto vesti anche più capziose; chi si ricorda più dell’autorità anticorruzione e dei poteri da concerderle?
Chi ricorda più delle convenzione europee sul medesimo tema, sottoscritte alla fine degli anni 90 e mai ratificate?
E del resto il tema della questione morale va, purtroppo, ben al di là del parlamento; le amministrazioni locali hanno problemi non minori; tacendo dei tanti municipi sotto la lente di ingrandimento per collusioni con i clan, basta citare quanto avvenuto ieri, l’arresto di un consigliere regionale campano per voto di scambio con la camorra, persona candidata malgrado una condanna in primo e secondo grado per peculato.
Esponenti degli stessi apparati, deputati a svolgere funzione di controllo, risultano essere attenzionati dalla magistratura in qualche caso indagati o imputati per reati gravi o comunque per inaccettabili deviazioni dai doveri di ufficio. L’opinione pubblica, da parte sua, dopo un periodo disattenzione, sembra aver riscoperto interesse sul tema; per ciò che accade nei palazzi cresce pericolosamente il senso di indignazione e si risente spesso pronunciare la parola “casta”.

E’ questo il momento che politica batta un colpo, per arginare quella che oggi è ancora una piccola onda e che si speri non si trasformi in un cavallone o in altro; tutti gli schieramenti si occupino dell’etica e dell’onestà di coloro che rivestano cariche pubbliche ed adottino scelte chiare per il presente e soprattutto per il futuro; sono indispensabili regole deontologiche e normative rigorose che sanzionino comportamenti opachi e rapporti collusivi, senza attendere le indagini giudiziarie; si tratta di un’esigenza ancora più impellente in un momento in cui l’autorevolezza della classe dirigente è determinante per imporre ai cittadini scelte di rigore sul piano economico e per mandare segnali di credibilità ai mercati internazionali.