“Infiltrazioni mafiose? Il rischio esiste, ma lo Stato non può dichiarare la resa” – Raffaele Cantone intervistato da Guido Ruotolo, per La Stampa di mercoledì 7 marzo 2012

Il rischio c’è. E’ inutile girarci attorno. Alla mafia un appalto di 2 miliardi e 800 milioni fa gola. Anche le sue briciole, intendiamoci. Se ve ne fosse poi bisogno, per la prima volta nella storia del Piemonte, ben tre comuni in provincia di Torino sono in attesa del lavoro dei commissari che dovranno verificare se e che dimensione hanno i condizionamenti della ‘ndrangheta nelle amministrazioni comunali».

Prende fiato Raffaele Cantone, il pm di «Gomorra» (minacciato con Roberto Saviano e la giornalista Rosaria Capacchione dai capi dei Casalesi): «E, dunque, siamo in attesa della decisione del governo sul possibile scioglimento delle tre amministrazioni: Chivasso, Leinì e Rivarolo Canavese. C’era stato il precedente di Bardonecchia, è vero, ma mai tre comuni contemporaneamente».

Cantone, lo Stato deve accettare la sfida?

«La mafia c’è e si è infiltrata nella pubblica amministrazione anche in Piemonte. Prendere atto di questo non significa fermarsi: le opere pubbliche bisogna farle, lo Stato non può dichiarare la resa».

E’ davvero ineluttabile la presenza della mafia nei lavori della Tav?

«Non lo credo, non lo voglio credere. Possiamo evitarlo. Dico subito che oggi lo Stato è più attrezzato con strumenti e leggi. Semmai, e questa è una proposta che mi sento di fare, si potrebbe creare una task force di polizia giudiziaria che vigili sull’esecuzione delle opere della Tav».

Chiarisca la proposta. Chi dovrebbe far parte della task force e per fare cosa?

«Oggi il problema principale è soprattutto quello della verifica di chi materialmente esegue i lavori. Oggi le mafie controllano le imprese pulite. L’inghippo si realizza nella fattura materiale delle varie fasi del lavoro nei cantieri. Chi materialmente mette a disposizione i mezzi per la movimentazione terra, per esempio?».

Come accertiamo la correttezza delle procedure e la genuinità della partecipazione delle imprese pulite ai lavori?

«Intanto, investigatori della Finanza, della Dia, la divisione investigativa antimafia, e magistrati della Procura nazionale antimafia dovrebbero procedere a verifiche non formali, a veri e propri blitz nei cantieri. Da questo punto di vista il passato ci è di conforto».

In che senso?

«Dai lavori della Tav in Campania al raddoppio della Salerno-Reggio Calabria – che è stato definito il “più lungo corpo di reato” -, abbiamo la certezza che la camorra o la ‘ndrangheta non sono intervenute nei meccanismi formali dei lavori ma nella fase esecutiva. Ricordavo prima del noleggio dei mezzi per la movimentazione terra o per il trasporto di macchinari o, aggiungo, alle forniture di ferro e cemento. Il nostro problema non è solo quello di controllare le “carte”, i contratti, le visure catastali, ma chi materialmente porta a termine i lavori».

Senta giudice, l’esperienza ci porta a diffidare ormai dello strumento della certificazione antimafia come l’antidoto antiinfiltrazione.

«E’ vero, la procedura per il rilascio del certificato così com‘è presenta una falla. Non è più sufficiente concentrarsi sulle figure che fanno parte degli organismi amministrativi delle imprese. Non è sufficiente l’amministratore delegato o il cda stesso. L’indagine deve essere più pervasiva e giungere ad individuare e analizzare i reali proprietari, titolari delle imprese».

Lo scrittore Roberto Saviano afferma che il Paese non è in grado di garantire che la Tav non diventi la più grande miniera per le mafie….

«Giusta la sua preoccupazione sul rischio di inquinamento mafioso. Ma possiamo rinunciare a un’opera solo perché c’è un rischio? Rinunciare sarebbe una sconfitta che lo Stato non può accettare».

Prima parlava di leggi e strumenti che oggi ci consentono maggiori controlli…

«Questi poteri di controllo ci sono. E consentono di verificare in astratto la regolarità dell’opera. A metà degli anni ‘90, l’inchiesta della Procura di Napoli sugli appalti della Tav, accertò la presenza asfissiante di Gomorra. Pasquale Zagaria poteva contare sui rapporti con il mondo istituzionale e politico di tutti gli schieramenti. Ecco, il problema è anche questo».

“Ora la legge anti corrotti” – Raffaele Cantone*, su l’Espresso, venerdì 10 febbraio 2012

Oggi punire le tangenti è più difficile che vent’anni fa. Servono subito  regole efficaci contro le cricche e sui fondi dei partiti. O l’Italia  sarà tagliata fuori dall’Europa.  

Sono passati vent’anni esatti da quel 17 febbraio del 1992 quando, con l’arresto in flagranza dell’ingegnere Mario Chiesa, cominciarono le indagini di Tangentopoli. Tante cose sono accadute in Italia in questi anni, ma nessuno si azzarderebbe oggi a dire che la corruzione è stato debellata o quanto meno riportata entro i confini fisiologici tipici delle democrazie occidentali.
Se ci si limitasse alle sole statistiche giudiziarie, il quadro sembrerebbe roseo; si è passati, ad esempio, dalle 1.700 condanne per corruzione del 1996 alle 236 del 2006. Ben diverso, però, è quanto ci dicono gli attendibilissimi dati forniti dagli organismi internazionali. Secondo una rilevazione del 2010 del “Global corruption Barometr” di Transparency international, il 13 per cento dei cittadini ha dichiarato di aver pagato nell’anno precedente tangenti (contro una media europea del 5 per cento) e dati molto simili sono stati forniti dall’Eurobarometro nel 2009.
Nella classifica internazionale della corruzione siamo scesi al 63 posto in negativo, lontani dagli altri Stati europei.

Questi numeri sono condivisi da gran parte degli operatori economici e sono persino riscontrati da efficaci trasmissioni tv di intrattenimento: “Striscia la notizia” ad esempio ha mostrato come al catasto di Napoli esistesse un sistema consolidato per cui bastava pagare 20 euro per ottenere subito atti che richiedevano tempi più lunghi, senza che i dirigenti si accorgessero dell’andazzo. E questi dati rendono indiscutibile come non solo le statistiche giudiziarie siano fallaci ma che anzi in modo preoccupante denuncino l’inefficacia della prevenzione e repressione della corruzione. Una realtà nota da tempo agli addetti ai lavori, ma sottovalutata dal Parlamento e dalla politica in generale, che si spiega con una pluralità di cause.
In estrema sintesi, una prima ragione è evidenziabile nei mutamenti strutturali del fenomeno corruzione; i pacchi di soldi portati a Mario Chiesa sono un ricordo del passato; il ripetersi ai giorni nostri di essi è quasi divenuto un fatto oleografico: come non ricordare l’episodio di un anno fa del consigliere comunale di Milano che si faceva portare le banconote nascoste in un pacchetto di sigarette.

Oggi gli amministratori pubblici non ricevono quasi più denaro, ma prestazioni di altro tipo (ad esempio i famosi “massaggi” offerti al responsabile della Protezione civile); incarichi lucrosissimi ma formalmente regolari; consulenze milionarie affidate oltre che a loro stessi, a familiari o persone di loro fiducia. Inoltre è molto più difficile individuare un compenso concesso in cambio di singoli atti: esistono sistemi “gelatinosi” nei quali i pubblici funzionari vengono “assoldati” da cricche affaristiche, divenendo per esse disponibili, a prescindere dal singolo appalto. È un’evoluzione che oltre a non rendere identificabile un atto di specifico favoritismo (necessario, comunque da individuare perché la norma penale sulla corruzione, risalente al 1930, lo ritiene indispensabile) genera un sistema di impenetrabile omertà che non è esagerato paragonare a quella mafiosa.
L’altro aspetto attiene alle défaillances della legislazione che si è modificata in peggio rispetto a quella (non certo perfetta) vigente negli anni di Mani Pulite; non è possibile scendere nei tecnicismi ma è dato inconfutabile che molti reati spia – quelli cioè che rendono capaci di individuare le malversazioni pubbliche – sono stati svuotati di contenuto: il reato di abuso di ufficio è divenuto meno stringente; il falso in bilancio quasi integralmente depenalizzato; i reati fiscali ridotti a ipotesi marginali. Ci sono poi i tempi di prescrizione dimezzati, tanto da rendere quasi impossibile le condanne per le vicende più gravi. E a queste modifiche sul piano sostanziale si aggiungono quelle processuali: il principio del “giusto processo” non consente più nessuna forma di utilizzo contro altri delle dichiarazioni confessorie, se non ripetute nel dibattimento.
È chiaro che per invertire il trend e scalare posizioni nelle classifiche internazionali – cosa che non ha un rilievo puramente simbolico, ma un’incidenza economica visto che esse influenzano gli orientamenti degli investitori internazionali – sarebbe indispensabile intervenire su più fronti, anche su quelli che non riguardano direttamente la corruzione.
Penso ad esempio, ad una legislazione che regoli le lobby o individui statuti vincolanti per i partiti politici – l’incredibile e inquietante vicenda del tesoriere della Margherita è l’ennesimo segnale in questo senso – che riveda il sistema dei controlli sulle attività degli enti locali; che regoli i conflitti di interesse dei pubblici amministratori.
Ad oggi, però, l’unica legge che potrebbe essere approvata è quella sulla corruzione: il disegno di legge del precedente governo Berlusconi, da gran parte degli studiosi ritenuto insufficiente, è in discussione presso le commissioni della Camera e il governo Monti ha promesso di intervenire per renderla più credibile e convincente.
La Commissione predisposta dal ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi (a cui ho l’onore di partecipare) ha già indicato alcune linee di intervento che possono favorire l’attività di prevenzione interna da parte delle amministrazioni: si va dal rafforzamento dei poteri delle autorità di controllo, alla previsione della necessità dell’autorizzazione per ricoprire incarichi esterni, alla tutela di chi denuncia gli illeciti, all’individuazione di sanzioni disciplinari per chi con compiti direttivi non controlla.
Ad oggi, invece, non si sa ancora quali saranno le eventuali modifiche relative alla repressione penale che spettano al ministero della Giustizia e se si inciderà sugli snodi davvero sensibili che l’attuale disegno di legge non affronta: in particolare i tempi di prescrizione che rendono spesso inutili i processi sulle tangenti, la previsione di nuove ipotesi di reato per punire le nuove realtà della corruzione, l’individuazione di meccanismi di premialità per chi denuncia e collabora, il rafforzamento delle pene accessorie contro i condannati per impedire che tornino a occupare incarichi pubblichi.

A vent’anni da Tangentopoli una legge sulla corruzione sarebbe certamente un segnale importante ma su questo fronte non ci si può più accontentare di manifesti propagandistici. Ben venga una nuova legge se fornisce strumenti di prevenzione e contrasto utili; in caso contrario ci si sarebbe forse da augurarsi che nulla cambi, perché una qualunque normativa priva di efficacia rischierebbe di ottenere l’effetto opposto. E rendere improbabile che la questione della corruzione venga affrontata in modo convincente nei prossimi anni. Il rischio è che nel ventesimo anniversario dell’arresto di Mario Chiesa l’Italia si ritrovi ancora lontana dall’Europa della legalità.

 * Si ricorda al lettore che Raffaele Cantone è attualmente membro della Commissione per la trasparenza e la prevenzione della corruzione del Ministero della Funzione pubblica

“I voti dei Casalesi al consigliere regionale” – Raffaele Cantone, su Il Mattino di Napoli, ed. naz. di mercoledì 16 novembre 2011

Tre notizie degli ultimi giorni, da leggersi in modo necessariamente unitario, meritano una breve riflessione.
Seguendo l’ordine temporale, quattro giorni fa la polizia di Caserta ha scoperto un vero e proprio arsenale a casa di un piccolo pregiudicato di San Cipriano d’Aversa, che le fonti investigative considerano vicino al latitante, da oltre 15 anni, Michele Zagaria.
Armi da guerra, in grado di essere utilizzate immediatamente e con una potenza di fuoco impressionante: capaci cioè di penetrare anche le lamiere super rinforzate delle auto blindate.
Quelle armi erano state nascoste in un’intercapedine di un muro solo pochi giorni prima, come rendeva evidente l’intonaco ancora fresco.
Due giorni fa l’esecuzione di un’ordinanza cautelare emessa dal Gip di Napoli su richiesta della locale DDA che ha colpito esponenti di primo piano del clan dei Casalesi (fra cui un figlio di Schiavone Francesco detto Sandokan), del clan Mallardo della zona nord di Napoli, e della mafia siciliana fra cui un familiare del noto capo della cupola Totò Riina.

Il provvedimento restrittivo, come riportato dalla stampa quasi soltanto napoletana, ricostruisce il meccanismo di controllo – grazie ad una vera e propria joint venture tra mafia e camorra – del sistema dei trasporti su gomma dei prodotti ortofrutticoli che, dalla Sicilia e da altre zone del Sud, vengono portati al più grosso mercato dell’Italia centro meridionale di Fondi, mercato, fra l’altro, su cui da anni sono forti gli allarmi degli inquirenti di infiltrazioni della criminalità mafiosa, ndranghetista e camorrista.
Ieri, infine, l’episodio più grave ed eclatante, l’esecuzione di un’altra ordinanza cautelare sempre del Gip napoletano, su richiesta della DDA, che ha portato in carcere alcuni imprenditori e soprattutto un consigliere regionale in carica (e clamorosa ironia della sorte, membro della commissione regionale anticamorra!), già sindaco fino al 2009 di uno dei comuni dell’agro aversano su cui è forte la penetrazione camorristica e cioè Villa Literno. Al politico, già esponente di peso del PD casertano, primo eletto nel suo collegio con tantissime preferenze, autosospesosi dal partito alcuni mesi fa quando emersero notizie di un suo coinvolgimento in indagini della DDA, sono contestati i delitti di concorso esterno in associazione mafiosa, voto di scambio aggravato dalle finalità mafiose e corruzione.
In uno dei capi di imputazione si può leggere (senza nulla aggiungere a commento!), che “il politico avrebbe assicurato al clan l’assegnazione di appalti e commesse ad imprese di gradimento del clan in cambio del predetto sostegno elettorale, di una parte della quota in denaro che la medesima impresa di volta in volta avrebbe assicurato al clan, nonchè di una relativa “pace” sul territorio relativamente alle richieste estorsive che comunemente il clan effettuava”.
Nel provvedimento cautelare – che è bene ricordare non rappresenta una sentenza di condanna, per cui il consigliere regionale potrà dimostrare la sua estraneità totale ai fatti – ci sono anche altri episodi, allo stato non oggetto di contestazione penale, ma a dir poco inquietanti. Riguardano il sindaco ancora in carica in uno dei comuni, pure simbolo del potere dei Casalesi, ed i suoi rapporti, sempre riferiti ad appalti e commesse, con esponenti di primo piano del potente sodalizio.
I tre fatti dimostrano in modo inconfutabile come la camorra resti forte sul piano militare (ha la disponibilità di armi micidiali), come continui a gestire attività economiche lucrose e fondamentali per la vita dei cittadini (riesce a monopolizzare il sistema di trasporto di prodotti alimentari) e come condizioni la vita delle amministrazioni locali, giungendo ad influenzarne l’attività, attraverso anche l’elezione di esponenti di vari colori politici, purchè disponibili ai loro desiderata.
Ed allora, si potrebbe dire, quale è la novità?
Nessuna, si dovrebbe, purtroppo, rispondere, aggiungendovi, però, una considerazione amara, mutuata da una durissima ed efficace intervista, apparsa su Il Mattino di qualche giorno, del procuratore aggiunto di Napoli Dda, Federico Cafiero de Raho; la lotta alla camorra è scomparsa dai temi di interesse nazionale, dandosi, da parte di qualcuno, per scontato troppo frettolosamente che i risultati investigativi ed i tanti arresti ne avessero minato la forza.
L’argomento è del tutto obnubilato e soppiantato dall’attenzione ormai a senso unico per la crisi economica, per lo spread e per il prezzo dei BTP decennali.

E si tratta di un errore strategico, perchè mai come in questi periodi di crisi e di trapasso politico le mafie sono capaci di incunearsi, di far sentire la propria voce e di cercare di “trattare” un proprio ruolo nel sistema che si andrà a creare. E non si tratat di preoccupazioni senza fondamento, visto quanto accaduto nel delicatissimo periodo 92-93!
Del resto sono loro, le mafie, ad avere enormi disponibilità economiche, utilissime per spregiudicate imprese in crisi, ad avere il controllo anche militare del territorio e la capacità di dirigere a destra o manca pacchetti di voti, forse fondamentali per spostare futuri equilibri e maggioranze. E si tratta di un errore clamoroso anche perchè le mafie – ed il sistema di illegalità che attorno ad esse fisiologicamente impera – rappresentano un ostacolo insormontabile per investimenti stranieri ed uno sviluppo economico vero e duraturo; finchè ci saranno loro su molti territori non solo meridionali, resterà l’arretratezza che favorisce quella parte dell’imprenditoria collusa e parassitaria e della politica disponibile ad accordi e scambi.

Raffaele Cantone, alla Festa Provinciale della Legalità. Giugliano in Campania (Na), venerdì 7 ottobre 2011.

Venerdì 7 ottobre 2011, ore 18.00,  piazza Matteotti, Giugliano in Campania (Na).
Per la Festa provinciale della Legalità, organizzata dal partito democratico, si discuterà del tema “Trasparenza ed enti pubblici. Le infiltrazioni della criminalità organizzata nell’economia e negli appalti”. Insieme all’On. Andrea Orlando (commissione giustizia) ed alla prof. Teresa Bene (II Università degli Studi di Napoli), interverrà il Dott. Raffaele Cantone.

Il nostro Movimento giuglianese “Contro le mafie”, sarà presente con un contributo, attraverso la voce di uno dei suoi membri: Eliana Iuorio.

“Decalogo contro la corruzione” – Raffaele Cantone su “l’Espresso”, n. 40 (6 ottobre 2011)

Nello stesso giorno in cui la maggioranza dei deputati negava l’arresto di un parlamentare accusato di corruzione, nella Commissione giustizia di Montecitorio proseguiva lentamente la discussione del nuovo disegno dilegge anticorruzione: un provvedimento  che viene giudicato un pannicello caldo di fronte alla gravità del problema.
L’attenzione nel nostro Paese per la corruzione può essere paragonata ad un fiume carsico.
Non se ne parla per lunghi periodi, malgrado le relazioni della Corte dei conti o i documenti di organismi internazionali evidenzino ogni anno l’estensione del fenomeno.
Di tanto in tanto, poi, il rigagnolo sotterraneo fuoriesce potente.
E il ritorno dell’interesse coincide sempre con fatti di cronaca così clamorosi da non passare inosservati, come l’arresto lunedì scorso di un assessore di Parma accusato di mazzette per le forniture delle mense scolastiche e già interrogato in passato per i rapporti con camorristi.
Vent’anni fa le indagini di Mani Pulite svelarono un sistema corruzione generalizzata. L’entusiasmo della cittadinanza, che sperava di vedere scomparire la rete delle mazzette, nel corso del tempo si è trasformato in delusione o peggio sfiducia.
Da un lato, si è fatto credere che i processi e le condanne avevano annientato il male; dall’altro, ci si è mossi rimarcando soprattutto gli inevitabili errori che pure c’erano stati.
Tangentopoli è divenuta, per qualcuno, il simbolo del terrore giacobino e giustizialista.
Le indagini, al di là di ogni valutazione di merito, avrebbero comunque dovuto imporre ad una democrazia matura di introdurre gli anticorpi per il futuro. Invece tutto l’apparato dei controlli è stato smantellato o reso inefficace.
Partiamo dal basso, ossia da ciò che è avvenuto negli enti locali. C’è un dato innegabile: gli organi di controllo rappresentati dai Coreco, lotti zzati politicamente e senza garanzie di indipendenza, avevano dato pessima prova e si è ritenuto, in modo incomprensibile, di abrogare integralmente il sistema dei controlli piuttosto che di individuarne altri che sterilizzassero gli inconvenienti.
Inoltre, sempre in nome dell’efficienza, si è aggirato quel meccanismo certamente farraginoso che è la normativa sugli appalti, creando le famigerate società miste pubblico-private con consigli di amministrazione debordanti di uomini nominati dalla politica che, sganciati spesso da ogni forma di sorveglianza, hanno gestito le risorse pubbliche in modo tutt’altro che trasparente.
Negli appalti si è verificata una vera e propria rivoluzione copernicana con effetti paradossali. Mutuando ciò che avviene per le aziende private, i controlli in molte occasioni – come nelle Soa, ossia le società organismi di attestazione – sono stati affidati ad entità non pubbliche, con un criterio che è il contrario dell’indipendenza e dell’efficienza: i controllori scelti e pagati dai controllati!
Sul piano giudiziario si sono rese più complicate le attività investigative sui reati contro la pubblica amministrazione. Gli interventi sull’abuso di ufficio e sui reati fiscali, fino alla depenalizzazione di molti aspetti del falso in bilancio, hanno limitato o escluso l’intervento dei magistrati.
E si è anche ridotto il termine di prescriziopne per la corruzione: una scelta che ha vanificato indagini sulle tangenti anche di grande importanza, finite nel nulla nonostante fossero provati vasti giri di mazzette. Invece gli strumenti di controllo preventivo, alternativi a quelli giudiziari e tanto pubblicizzati, non sono mai stati dotati di poteri reali; chi si ricorda, ad esempio, di attività significative svolte dalla cosiddetta Authority contro la corruzione?

Mentre per quasi vent’anni è stato fatto di tutto per annichilire prevenzione e repressione, la corruzione è cambiata.
Le inchieste più recenti, molto a macchia di leopardo, stanno dimostrando come la corruzione tradizionale della mazzetta consegnata al burocrate o al politico sia un ricordo del passato. Come ha più volte evidenziato il giudice Piercamillo Davigo, gli arresti del passato hanno aguzzato l’ingegno e favorito un’evoluzione della specie.
Oggi le forme attraverso cui il mercimonio degli uffici avviene vanno da quei sistemi definiti gelatinosi – in cui pubblici funzionari ed imprenditori sono in rapporti intrecciati di affari – fino a tecniche quasi geniali, come l’occultare la tangente dietro una caparra per una vendita di un bene che non si comprerà mai.
Di fronte a questa situazione chemina l’efficienza e la credibilità dielle istituzioni, determinando la fine del libero mercato in molti settori dell’economia e un costo per tutti i cittadini, la reazione della classe politica è costellata di soli propositi.
E’, invece, indispensabile ed urgente mettere in cantiere una riforma complessiva, che contenga un mix di misure che riguardino sia l’aspetto repressivo penale che quello preventivo, anche mutuando i suggerimenti di organismi internazionali cui l’Italia ha aderito, come il Greco (Group d’état contre la corruption). Su 22 “raccomandazioni” trasmesse al governo dal Greco, ne risultano eseguite meno della metà.
Per il controllo giudiziario, andrebbe prevista accanto alla norma sulla corruzione – che richiede di individuare uno specifico atto oggetto delpatto criminale – una sul “traffico di influenze” che consentirebbe di punire quei pubblici ufficiali che si mettano a disposizione di privati, dietro corrispettivo, anche a prescindere dal compimento di un’attività: è l’unico deterrente contro il proliferare di comitati d’affari come le varie cricche, le P3 e le P4 emerse nelle ultime inchieste. Bisognerebbe, inoltre, intervenire sui termini di prescrizione, che sono divenuti talmente brevi da rendere inutile ogni indagine: è impossibile arrivare alla conclusione dei tre gradi di giudizio, l’impunità ormai è pressoché certa. Ci vorrebbero poi tutele per chi denuncia: troppo spesso chi si espone rischia oltre all’incriminazione anche di essere escluso di fatto per il futuro dai rapporticongli enti.
Mentre non dovrebbe essere consentito mai a chi è stato condannato per reati gravi di rimanere nella pubblica amministrazione.
Le norme sulla corruzione andrebbero poi estese, con le dovute garanzie, anche ai privati; è un inaccettabile paradosso che se si corrompe un funzionario con 50 euro per ottenere più velocemente un certificato si è puniti ed invece non è sanzionata la tangente ad un manager per ottenere appalti milionari da parte di una multinazionale.
Ma occorre un impegno anche sul piano della prevenzione. Creare sistemi di controllo sulla spesa degli enti locali, affidati a organi che diano garanzie di indipendenza, senza che divangano intralci burocratici.
La pubblica amministrazione non è tutta nelle mani di fannulloni e corrotti: ci sono persone oneste ed efficienti, energie positive che vanno valorizzate.
Molti segretari comunali – prima che il loro ruolo venisse riformato – sono stati la migliore sentinella del malaffare.
In questo campo si dovrebbe copiare le aziende, che introducono nei contratti clausole per impedire che i propri manager vadano subito a lavorare per la concorrenza: va limitato ilpassaggio da alti incarichi dirigenziali pubblici al privato.
Ultimo punto, redditi e proprietà dei dipendenti pubblici e dei loro familiari, entro un certo grado, dovrebbero confluire in una sorta di anagrafe tributaria che consenta di monitorare arricchimenti troppo rapidi.
Sul conflitto di interessei andrebbe prevista una disiplina efficace, che prescinda dalle polemiche spesso strumentali che hanno riguardato ilpremier: ci sono nel rapporto pubblico-privato tantissime ipotesi di conflitto di interesse che minano l’imparzialità delle istituzioni.
Gli enti, soprattutto quelli territoriali, dovrebbero smettere di fare gli imprenditori; quanto sta emergendo sulla vicenda dell’acquisto delle azioni dell’autostrada Serravale da parte della Provincia di Milano, dimostra i rischi clamorosi di distorsioni.
Per i partiti politici, andrebbe individuato un sistema di finanziamento trasparente: bilanci certificati ed in cui sia chiaro in che modo giungano fondi, senza più zone d’ombra. E’ anche arrivato il momengto di regolare le lobbies, facendo tesoro delle legislazioni degli altri Stati occidentali; se è vero che una moderna economia non può fare a meno di intermediazioni, anche tecniche, nei momenti decisori istituzionali da parte dei portatori di interessi, è altrettanto indispensabile che esse si manifestino in modo limpido e non come è avvenuto fino ad oggi.
Riforme ambiziose? La situazione del paese, con una crisi economica che impone sacrifici per decine di miliardi e il crollo di credibilità delle istituzioni documentato dagli ultimi sondaggi, richiede medicine amare.
Di certo, non le norme del disegno di legge voluto dal centrodestra che oggi viene lentamente discusso nella Commissione Giustizia: quelle sono aspirine, che non possono curare un male così esteso.  

“Filtri sporchi. Partiti colpevoli”. Raffaele Cantone ne “Il commento”, su “Il Mattino” di Napoli, edizione nazionale di mercoledì 4 maggio 2011.

Dopo essere intervenuto già per due volte sulla vicenda dei rischi di infiltrazione nelle liste per elezioni comunali, è opportuno farlo ulteriormente dopo quanto si sta accertando a Napoli e quanto è avvenuto ieri a Quarto ed a Gioiosa Marina in provincia di Reggio Calabria.
Dopo le presenze inquietanti di candidati sottoposti ad indagini per gravi reati nelle liste di uno degli aspiranti sindaci al municipio di Napoli dalle indagini della magistratura è emerso come i gruppi camorristici di alcuni rioni popolari stessero organizzando la compravendita di pacchetti di voti da mettere a disposizione di candidati spregiudicati; proprio prendendo spunto da questa vicenda, il procuratore di Napoli, Lepore, molto opportunamente, ha richiamato l’attenzione preventiva dei partiti sui rischi di inquinamento del voto.

Dallo spulcio più approfondito delle liste sono poi venuti fuori casi di parentele con esponenti conclamati della camorra o con soggetti di recente inquisiti per gravi episodi di favoreggiamento ai boss.
Si è detto, giustamente, con riferimento a questi ultimi casi, che è un principio sacrosanto di civiltà giuridica che le colpe di genitori e parenti vengano considerate strettamente personali e che non possano ricadere su terzi.
Però, fermo ed indiscusso il diritto di elettorato passivo ed attivo di queste persone, non è certo preclusa una valutazione in termini di possibile inopportunità che non riguarda tanto chi si è candidato quanto piuttosto chi li ha accettati come compagni di avventura; alcuni cognomi in certi quartieri pesano ancora e forse sceglierli non è il miglior viatico per chi intenderebbe improntare la sua prossima attività amministrativa ai valori di legalità e trasparenza.
Ieri poi sono piombate sulla campagna elettorale due ordinanze cautelari in due contesti fra loro lontani; una riguarda il clan Polverino e le sue attività in Quarto, località che già passato era stato interessata da indagini giudiziarie che avevano sfiorato uomini delle locali istituzioni; questa volta sono stati arrestati due candidati per le elezioni prossime del consiglio comunale, in una lista con i colori del principale partito di governo.

In provincia di Reggio, invece, in un’indagine che riguarda il potente clan dei Mazzaferro sono stati tratti in arresto un sindaco e tre assessori comunali del comune di Gioiosa; nella conferenza stampa di illustrazione dell’operazione il Procuratore di Reggio, Pignatone, ha testualmente affermato che era stata, grazie alle intercettazione, ricostruita in diretta la massiccia infiltrazione mafiosa nel piccolo comune reggino.

Gli ultimi due episodi, ferma restando la presunzione di innocenza ed il diritto degli inquisiti di far valere le loro legittime ragioni per dimostrare la loro estraneità, ovviamente sono di ben maggiore gravità e rilevanza rispetto a quelli di cui più sopra si è fatto cenno ma possono ben essere letti tutti insieme e giustificare qualche considerazione preoccupata.

In primo luogo, essi dimostrano ulteriormente (se ce ne fosse ancora bisogno!) come le mafie siano interessatissime ad essere presenti con loro uomini negli enti locali.
Questi ultimi, per essere quelli che gestiscono la vita quotidiana e gli interessi anche più spiccioli dei cittadini, sono determinanti per consentire agli stessi sodalizi di accrescere l’indispensabile consenso su cui fondano la loro forza e per lucrare sulle attività economiche (appalti, commesse, società municipalizzate etc.) gestite da quegli stessi enti.
E gli uomini infiltrati negli enti locali non sono più antropologicamente mafiosi, ma spesso colletti bianchi o professionisti, del tutto disponibili ai voleri dei capibastone.
Ed è utile ribadire come questo interesse sia destinato a crescere quando agli enti di prossimità, con le imminenti riforme del federalismo fiscale, saranno attribuiti nuovi poteri, in particolar modo in materia di spesa pubblica.
L’altra considerazione è che i partiti, in particolare sul piano locale, malgrado lo sbandierato impegno preso solennemente prima di ogni consultazione elettorale, non appaiono in grado di fare da filtro reale per impedire candidature impresentabili.
Solo dopo che gli episodi emergono pubblicamente, grazie alla stampa o alle indagini della magistratura, i vari esponenti locali sono pronti o a giustificarsi adducendo di non sapere o a stracciarsi le vesti, prendendo (tardivamente) le distanze, sdegnosamente aggiungendo di non volere i voti di questo o quel candidato.
E su queste considerazioni – credo – debba essere centrata una riflessione della politica anche nazionale e del massimo organo che di questi temi si occupa, cioè la commissione parlamentare Antimafia.
Se i codici di autoregolamentazione non funzionano (o funzionano poco), se le norme sono capaci solo di impedire le candidature dei condannati, se ormai «i cavallucci» delle mafie si presentano spesso con certificati penali immacolati, bisogna evidentemente pensare ad altri rimedi.
È necessario trovare meccanismi efficienti ed efficaci, per arginare, prima delle indagini giudiziarie, presenze ingombranti.
Ma è anche necessario introdurre meccanismi di controllo, a setaccio molto stretto, perché comunque, anche dopo le elezioni, le mafie, manovrando i loro uomini, non si approprino dei municipi e di quello che questi enti rappresentano per tutta la collettività.

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L’immagine inserita è un’Opera dell’Artista Giuseppe Piscopo: “Urna cineraria”, del 2008.

La sua grinta è nei fatti. Raffaele Cantone intervistato da “La Gazzetta dello sport”, in evidenza su www.napolimagazine.com

L’uomo che ha scritto la parola “mai” sulla data di fine pena dei padrini Schiavone e Bidognetti ha l’aspetto mite di chi non torcerebbe un capello nemmeno al suo peggior nemico.
Eppure, con quel sorriso limpido da uomo giusto Raffaele Cantone ha assicurato alla giustizia alcune delle primule rosse più feroci del clan che più d’ogni altro incarna la camorra nell’immaginario collettivo.
Quello che ha stabilito il proprio epicentro a Casal di Principe, provincia sciagurata di Caserta.
“Qui la camorra da tempo fa affari col calcio. Gli intrecci tra i due mondi sono datati e documentati”, dice Cantone in un’intervista rilasciata a “La Gazzetta dello Sport”, come evidenzia “Napoli Magazine”.
Cantone procede con incedere sereno anche nelle parole. La grinta è tutta nei fatti.
Quelli che ha portato avanti per anni nel suo meticoloso lavoro.
“Calcio e malaffare si incrociano, soprattutto nel calcio minore la gestione della squadre porta ai clan vantaggi: consolida il consenso, avvicina mondi terzi della politica, delle istituzioni e dell’imprenditoria.
Una delle ultime indagini della DDA su partite truccate, usura ed estorsioni nella zona di Castellammare dimostra che esiste una nuova frontiera intorno al sistema delle scommesse, sempre aperto e in tempo reale.
Il fronte tecnologico permette alla camorra di pilotare le puntate.
Un rischio simile esiste nelle corse dei cavalli.

Il giro di soldi è enorme e non si può escludere che anche i gestori stranieri possano essere utilizzati dalla criminalità. L’Albanova? E’ un caso eclatante. Era gestita dagli Schiavone e al vertice aveva Dante Passarelli, titolare di uno zuccherificio che vinceva tutti gli appalti per le refezioni nelle mense. Il presidente della Mondragonese, invece, era il reggente del clan. Anche la vicenda della Lazio (tramite Chinaglia, ndr), per quanto abbia portato ad assoluzioni, dimostra che ci sono legami strani tra malaffare e pallone.
E la storia del Potenza mi fa pensare che una squadra di calcio può essere utilizzata per svolgere varie funzioni in un’ottica criminale: riciclare soldi, controllare le scommesse e avvicinare ambienti lontani, che in uno stadio diventano più abbordabili.
Se siamo al dopo Calciopoli? Per niente.
Quando gli interessi economici sono così rilevanti, il rischio di interferenze è sempre altissimo.
Se nelle mie indagini mi sono mai imbattuto in episodi legati alla passione per il calcio?
Scoprimmo che Pasquale Zagaria, boss dei Casalesi, aveva fatto pressioni perchè un ragazzo facesse un provino col Parma. Il tentativo non andò a buon fine, eppure Zagaria a Parma aveva attività imprenditoriali e contatti con esponenti importanti della città.

Come vedo il futuro del Napoli? Sono ottimista. Il Napoli è riuscito a fare un’operazione virtuosa sui conti economici, ottenendo ottimi risultati.
Quello che manca da tempo, però, è una politica di investimento sul vivaio: troppi giovani nati qui fanno la fortuna di altre piazze. Napoli è un vivaio naturale, portare in prima squadra dei ragazzi sarebbe un grande risultato sociale.
La squadra è seconda in classifica mentre la città arranca? Napoli ha bisogno di una scossa fortissima sul piano della vivibilità e del rispetto delle regole, ma chiedere alla squadra di diventare il volano della ripresa sarebbe sbagliato“.

Riproduzione del testo consentita previa citazione della fonte: www.napolimagazine.com
Direttore Antonio Petrazzuolo.

“Contro i clan più trasparenza sugli appalti” – Raffaele Cantone, su “Il Mattino” di Napoli, ed. nazionale del 24.11.10.

Rientrando l’altra sera da un interessante incontro con i giovani di un’associazione universitaria napoletana, in via Petrarca, avevo notato con soddisfazione come in quella zona mancassero i cumuli di rifiuti che i tg mostrano nei loro servizi. Per strada, però, quanto più mi allontanavo dai quartieri «alti» tanto più mutava lo scenario, fino ad arrivare, complice un enorme acquazzone, ai sacchetti che galleggiavano su un rivolo melmoso, tanto che per superarli siamo stati costretti a una gimkana.

A casa, non appena accesa la televisione, ho letto su Televideo la notizia dell’allarme degli epidemiologi napoletani sui rischi di infezione; la pioggia stava spargendo percolato dovunque. Forse proprio per l’accavallarsi di questo preoccupante allarme, l’immagine dell’auto che zigzagava fra i sacchetti galleggianti sull’acqua mi è ripassata più volte davanti agli occhi; mi è sembrata quasi una metafora di quello che sta avvenendo a Napoli e nella sua provincia. Ci siamo ormai talmente assuefatti al ripetersi delle emergenze ed a convivere con situazioni non degne di uno stato civile che cerchiamo soltanto, stancamente, di aggirare gli ostacoli, di far finta di non vedere ciò che c’è intorno, di non indignarci nemmeno più, pronti, forse, a far sentire la nostra (egoistica) voce solo quando si paventa di aprire discariche non lontane dalle nostre abitazioni. L’inquietudine ed il pessimismo sono aumentati nel leggere i giornali. Il primo titolo di quasi tutti i quotidiani riferiva dell’analisi impietosa degli ispettori Ue che, tornati a Napoli, avevano dichiarato che rispetto a due anni fa la situazione era purtroppo immutata. Anche dal quadro politico non venivano segnali confortanti; la maggioranza di governo, già in crisi, ha subìto un ulteriore scossone con le dimissioni annunciate di un ministro per i contrasti sulle scelte da adottare proprio per l’emergenza rifiuti, contrasti che hanno ritardato l’adozione delle ennesime misure straordinarie; l’opposizione, dal canto suo, fa sentire flebile la sua voce perché tutta concentrata sulla scelta del prossimo candidato sindaco. L’unico barlume di speranza è venuto dal presidente della Repubblica; da suprema carica della Nazione e da napoletano attaccato alla sua terra, ha dimostrato di essere attentissimo a quel che accade ed ha fatto sentire forte il suo richiamo per lamentare che il decreto legge sull’argomento, pur annunciato dal governo, non gli era stato ancora trasmesso per la sua firma (circostanza avvenuta solo nella giornata di ieri). Tutte le aspettative salvifiche si concentrano adesso sul decreto. I più importanti snodi di esso sono la definitiva rinuncia a tre discariche, un piano straordinario per i termovalorizzatori e per far partire davvero la differenziata, con la nomina di commissari ad acta in caso di gravi inadempienze, oltre ad un concreto e significativo stanziamento di denaro (150 milioni di fondi Fas e 282 milioni per le bonifiche tra governo e Regione). Non si può fare a meno di evidenziare non poche perplessità; non si comprende, in primo luogo, in questa fase transitoria precedente la messa in funzione dei nuovi termovalizzatori dove andranno i rifiuti napoletani; ormai in provincia non ci sono più discariche e, nell’assenza di una disponibilità dei siti delle altre province campane, è impensabile che si possa gestire un periodo lungo, mandando all’estero, con spese enormi, i rifiuti. Le misure sulla differenziata, viste le esperienze di quelle analoghe contenute nel decreto del 2008, saranno credibili solo se ai Comuni virtuosi saranno assicurati gli stanziamenti necessari per far fronte agli oneri per gestire questo tipo di raccolta e se si attueranno per davvero i promessi interventi draconiani contro quegli enti locali che non rispetteranno gli obblighi nei prossimi sei mesi. Ed infine il tema più spinoso sui termovalorizzatori; su questo argomento si è aperto lo scontro nel governo tra la soluzione, sponsorizzata dal ministro Carfagna, di affidarne la costruzione al presidente della Regione e quella sostenuta dagli esponenti del partito campano che ritiene che il compito debba essere affidato alle province. Seppure la scelta più razionale appare decisamente la prima (secondo il decreto sarà il governatore, d’intesa con le Province interessate, a nominare o commissari straordinari), perché consente una pianificazione che tenga presente l’intero territorio regionale ed eviti concentrazioni di impianti in zone determinate, vi è un’esigenza che va comunque ritenuta prioritaria.

 L’urgenza del «fare» non sia il viatico dell’aggiramento dei controlli soprattutto in materia di normativa antimafia sugli appalti ed i subappalti; vi sono enormi interessi che ruotano attorno alla costruzione e alla gestione dei termovalorizzatori ed il fiume di denaro collegato all’intervento può far gola a tanti gruppi imprenditoriali ma anche ad entità vicine ad organizzazioni di tipo mafioso.

(Raffaele Cantone, “Contro i clan più trasparenza sugli appalti”, ne “Il commento”, pubblicato su “Il Mattino” di Napoli, Edizione nazionale di mercoledì 24 novembre 2010 – in prima ed a seguire a pagina 26).