“Vent’anni” dalle stragi. Incontro-dibattito all’I.P.I.A. Marconi di Giugliano

Vent’anni da Capaci. Vent’anni da via D’Amelio. Due stragi, due uomini che hanno segnato la storia del nostro Paese. Non abbiamo dimenticato, non dimenticheremo.   Attraverso le pagine del libro edito da Salvatore Coppola, “Vent’anni”, AA.VV. a cura di Daniela Gambino ed Ettore Zanca, Libera Giugliano insieme a Giovanni Conzo (sostituto Procuratore della Repubblica presso la DDA di Napoli); Raffaele Sardo (Giornalista e Scrittore, tra gli autori del testo); Vincenzo Viglione (Libera Giugliano – Wrong trasmissione web radio); la Prof. Rosanna Scialò (coordinatrice resp. progetti legalità dell’Istituto Marconi) ed il Preside dell’I.P.I.A. Marconi, Ing. Francesco De Rosa, ripercorrerà questi venti anni trascorsi in assenza di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Assenza fisica. Che loro, non hanno mai smesso di vivere, nel cuore e nelle idee di chi crede e resiste. Contro tutte le mafie.
(Elaborazione grafica locandina: Vincenzo Viglione)

Incontro con Antonio Ingroia, al Presidio di Libera Giugliano “Mena Morlando”. Sabato 21 aprile, ore 16.00

Sabato 21, ore 16.00, il Presidio di Libera Giugliano, dedicato alla memoria di Mena Morlando (vittima innocente di camorra), dopo l’inaugurazione ufficiale avvenuta il 14 febbraio, alla presenza di Don Luigi Ciotti (fondatore di “Libera” Associazioni , nomi e numeri  contro le mafie), ospiterà il Procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, in occasione della presentazione del suo “Nel labirinto degli dèi – storie di mafia ed antimafia”. Appuntamento a Giugliano, presso la sede di “Libera Giugliano”, nell’aula magna dell’Istituto Fratelli Maristi, in via Fratelli Maristi 2. Previsto, tra gli altri, l’intervento del magistrato Raffaele Cantone, presidente onorario del Presidio

“Operazione Penelope”, di Raffaele Cantone. Perchè Conoscenza è Libertà

Nel buio fitto della mancata conoscenza, in cui la società civile (vittima e carnefice, allo stesso tempo), vive prigioniera; nel tentativo di costruirsi una verità attraverso l’interpretazione di quelle ombre, cui la stessa società fa riferimento anche allo sciogliersi delle catene, appare talvolta una luce, potente, che alimenta in egual modo curiosità e paura.

Il nostro Paese ha vissuto e vive ancora, per certi versi, una stagione di mancata o superficiale attenzione al fenomeno mafie; come se bastasse parlarne, senza analizzare le concrete soluzioni (per poi realizzarle), senza affrontare la responsabilità di ciascun soggetto (in ambito politico); o fosse sufficiente riportare la notizia di questo, o quell’arresto, più o meno “eccellente” (il riferimento è al mondo della comunicazione).

“Operazione Penelope”, il nuovo lavoro del magistrato Raffaele Cantone (Mondadori editore 2012, per la Collana “Frecce”), si muove come una luce, che guida il lettore alla riflessione. Amaramente ironico, il titolo, chiaro riferimento ad una “lotta che rischia di non finire mai”, se le parole spese nelle sedi istituzionali più alte – come la tela di Penelope – vengono sgretolate nottetempo, per poi riapparire sotto forma di promesse sempre nuove, l’indomani.

I comitati di affari, le ecomafie, la corruzione; Cantone non dà alibi agli ignavi: li costringe nell’angolo delle responsabilità, con un ritmo incalzante, serrato; parole come saette, riflessioni che si susseguono appropriate, decise, nel suo caratteristico stile lucido e diretto. Le mafie che cambiano dinamiche, interessi, che non possono confinarsi in un determinato territorio, ma – e soprattutto in momenti di crisi economica come questo – sicure della propria liquidità, offrono i propri “servizi” a chiunque voglia accedervi; un pericolo evidente, quello rappresentato dai movimenti di quella “zona grigia” che troppo spesso cede alle lusinghe del sodalizio criminale, per avvantaggiarsi nei propri affari, accaparrarsi voti, risolvere questioni economiche o di altra natura. Le mafie che prosperano aiutate da taluni pezzi della società civile, dello stesso Stato, cui occorre attribuire precise responsabilità, nel disfacimento e la ricostruzione della tela di Penelope, metafora della lotta alle mafie sbandierata come uno spot e non realizzata. Agli arresti deve seguire altro: contrasto alla corruzione in primis; ed è tra le pagine 104-126, che si nasconde il “cuore” dell’interessantissimo libro di Raffaele Cantone, un capitolo interamente dedicato alla situazione attuale del Paese, che, sulle ceneri dell’inchiesta “Mani pulite”, in circa venti anni, non è stato capace di realizzare un sistema reale di prevenzione, repressione ed arginamento di questo sistema criminale, con un intervento legislativo ad hoc.

Un libro bello perché “umano”, scritto con la professionalità di un magistrato carico di una cultura giuridica immensa, che vive ogni giorno sulla propria pelle (paradossalmente, nel nostro bel paese civile!), il segno dell’impegno reale nel contrasto alle mafie; un uomo discreto ed equilibrato, che ama e rispetta come pochi, la toga indossata vent’anni e più orsono. Un libro che in un capitolo intenso, dedicato a chi muore di camorra, apre a chi legge, il cuore dell’autore; così come nel capitolo finale “Scrivere e parlare di mafia”, manifesta la grande ironìa di Raffaele Cantone, dote non comune, segno di raffinata intelligenza.

“Operazione Penelope” è un libro che apre la mente; uno scritto che non può non leggersi; un testo che garantisce 165 pagine di riflessione attenta e puntuale. Un libro che consigliamo a tutti.

Perché Conoscenza è Libertà.

 

“Questo non è un film”: il 21 marzo del Presidio Libera Giugliano “Mena Morlando”, per la Giornata della Memoria e dell’Impegno, in ricordo di tutte le vittime delle mafie

A poco più di un mese dall’inaugurazione datata 14 febbraio, arriva il primo grande appuntamento per il neonato Presidio di Libera Giugliano (nato dalla sinergìa di tre realtà sociali presenti sul territorio giuglianese: Associazione Contro le mafie; Wrong trasmissione web radio ed Istituto Fratelli Maristi), intitolato alla memoria di Mena Morlando.
Il prossimo 21 marzo infatti, il sodalizio giuglianese così come tutta la rete di “Libera – Associazioni, Nomi e Numeri Contro le Mafie”, celebrano la diciassettesima edizione della “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie”.
Dal 1996 ormai, per tutti i familiari delle vittime innocenti delle mafie, il 21 marzo non è più semplicemente il primo giorno di primavera, ma il simbolo della speranza che si rinnova, l’occasione per ritrovarsi e ritrovare la forza e il coraggio che grazie a Libera ha dato loro la capacità di reagire al dolore trasformandolo in autentico strumento di impegno e di azione di pace.
Quella del 21 in realtà rappresenta “solo” la data culmine della lunga serie di celebrazioni che quest’anno si apriranno il 17 marzo in una Genova che è già pronta ad accogliere i numerosi pullman provenienti da ogni angolo della penisola che catapulteranno per le strade del capoluogo ligure uno straripante fiume allegro e coloratissimo di persone giunte per stringersi in un grande abbraccio attorno alle vittime delle mafie cui sarà dedicata, proprio a Genova una piazzetta che sarà inaugurata il giorno prima.  
Per la chiusura della Giornata della Memoria e dell’Impegno, il 21 marzo alle ore 18.30, il Presidio di Libera Giugliano invita alla proiezione di “Questo non è un film”, docu-film di denuncia prodotto dalla Cei e dal Coordinamento familiari vittime di criminalità, tesa a puntare i riflettori sulle problematiche sociali del nostro territorio.
Dopo la proiezione – fanno sapere i responsabili del Presidio – la serata proseguirà con il dibattito a cui prenderanno parte Susy Cimminiello, Pasquale Scherillo, Francesco Morlando e Bruno Vallefuoco, familiari delle vittime innocenti che stanno scrivendo pagine importanti dell’anticamorra napoletana.
Con i familiari, si ascolterà la testimonianza di Giovanni Fernandes, sopravvissuto egli stesso ai proiettili della camorra, che lo colpirono a Giugliano, da innocente, per un “errore di persona”; a seguito di quell’episodio, Fernandes è costretto a vivere su una sedia a rotelle (della sua storia, ne ha scritto il magistrato Raffaele Cantone, nel suo “Solo per Giustizia”).  

A coordinare l’incontro, Raffaele Sardo, giornalista e scrittore da sempre impegnato sul fronte della lotta alla camorra, autore di volumi come “La Bestia” e “Al di là della notte”, quest’ultimo dedicato proprio alla memoria delle vittime innocenti di camorra.
Appuntamento all’aula magna del Presidio di Libera Giugliano “Mena Morlando”, presso l’Istituto Fratelli Maristi, in via Fratelli Maristi 2, Giugliano in Campania (NA).

“Far guadagnare le imprese con la legalità” – Raffaele Cantone ne L’analisi, su Il Mattino di Napoli, ed. naz. di mercoledì 29 febbraio 2012

In sede di esame del decreto legge sulle liberalizzazioni, in commissione industria del Senato, è passato un emendamento che, secondo le dichiarazioni della senatrice Vicari, introdurrebbe “l’elaborazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in raccordo con i ministeri della Giustizia e dell’Interno, di un parametro che misurerà il livello di legalità delle imprese”.
Tradotta la formula apparentemente incomprensibile nel linguaggio corrente, significa che, una volta che la norma sarà approvata nei passaggi parlamentari successivi, verrà introdotto il cosiddetto rating della legalità. Diventerà, quindi, legge la proposta da tempo avanzata da Confindustria soprattutto siciliana; le imprese, cioè, oltre a essere valutate per il fatturato, la capacità dei manager e, ovviamente, per la loro solvibilità, riceveranno una specie di pagella relativa al rispetto della legalità.
Allo stato, pur nell’estrema genericità del parametro di riferimento (la legalità è un concetto tanto ampio e, per dirla con don Luigi Ciotti di Libera, anche troppo spesso “abusato”), è già possibile avanzare qualche prima valutazione.
L’idea dei proponenti l’emendamento è quella di consentire di valutare i comportamenti tenuti dall’impresa nei confronti della criminalità organizzata, riconoscendo un rating particolarmente favorevole a quelle che non solo non risultano in nessun modo in collegamento con ambienti mafiosi, ma che abbiano dimostrato con fatti concreti di volersi opporre ad essa.
Diventerà, quindi, un “merito” imprenditoriale denunciare richieste estorsive, dirette (e cioè il versamento del cosiddetto “pizzo”) o indirette (ad esempio, di assunzione di personale, di acquisto di materiali da fiduciari dei clan, di concedere subappalti o noli etc.).

La valutazione favorevole in termini di legalità dovrebbe avere conseguenze significative sul piano concreto; renderebbe, infatti, più facile l’accesso al credito e ad agevolazioni pubbliche e consentirebbe di essere inseriti in una sorta di “lista dei buoni” (la cosiddetta “white list” da contrapporre alla “black list”) cui potrebbero attingere investitori internazionali o grandi ditte nazionali o estere interessate per affidamenti di lavori, appalti e/o incarichi.
La novità legislativa, così come prospettata, è sicuramente intelligente ed innovativa e su di essa va dato un giudizio ampiamente positivo.
La forza delle mafie, come è ormai noto a tutti, sta soprattutto nella loro smisurata disponibilità economica e nella conseguente loro capacità di coinvolgere pezzi del mondo imprenditoriale e professionale.
Rispetto a tale forza di traino, il richiamo a valori meramente morali o persino al rischio di un coinvolgimento in indagini penali non sono, purtroppo, controspinte da sole sufficienti; c’è bisogno di una sorta di rivoluzione copernicana, riassunta in uno slogan caro a molti esponenti dell’antimafia sociale e cioè “rendere conveniente la legalità”. E premiare sul piano imprenditoriale chi si comporta bene, e lo dimostra con i fatti concreti, risponde a questo obiettivo!
Il nuovo istituto per funzionare, però, richiederà una serie di indispensabili condizioni.
La prima, di esse riguarda i parametri di valutazione del rating; essi dovranno essere particolarmente approfonditi (lo screening non potrà limitarsi, a d esempio, solo a coloro che rivestono le cariche sociali, ma dovrà riferirsi a titolari effettivi delle imprese), ma anche oggettivi, per evitare il rischio che criteri troppo discrezionali ed elastici consentano di dispensare valutazioni positive (anche) agli “amici”, piuttosto che ai (soli) meritevoli.
E, inoltre, il “rating” non deve tradursi in un ulteriore appesantimento per le imprese, dovendosi necessariamente raccordare, per evitare inutili duplicazioni, anche con altri “indicatori” della legalità delle attività economiche. Mi riferisco, in particolare, al rilascio della certificazione antimafia, strumento indispensabile per il contrasto della delinquenza organizzata ma spesso una vera croce per gli imprenditori a causa dei tempi lunghissimi degli accertamenti e dell’eccesso di burocrazia che la contraddistingue.

Bisognerà, quindi, capire il modo in cui il principio sarà effettivamente declinato per esprimere un giudizio definitivo; solo in quell’occasione sarà possibile davvero capire se l’ottima idea si sia stata tradotta in un altrettanto valida applicazione o se, invece, – come scaramanticamente incrociando le dita non ci auguriamo – nel semplice (ennesimo) slogan pubblicitario, senza effetti benefici nel contrasto alle mafie.

“Mena, morire per un errore della camorra” – Raffaele Cantone, su Il Mattino di Napoli, martedì 20 dicembre 2011

E’ il 17 dicembre 1980; sono passati circa 20 giorni dal tremendo terremoto dell’Irpinia e a Giugliano – già un paesone al Nord di Napoli, forse con poco più di trentamila abitanti – è in atto da mesi uno scontro feroce fra le bande della camorra.
E’ in quel periodo che si pongono le basi dell’abnorme sviluppo demografico ed edilizio – oggi vi abitano in oltre centomila! – della trasformazione da paese a vocazione agricola a prevalente attività imprenditoriale nel ramo dell’edilizia; sono in molti, in primo luogo i camorristi, che intravedono nel sacco del territorio – oggi squassato anche dalle discariche – un enorme affare.
Mena Morlando è una ragazza di 25 anni; è figlia di un impiegato delle poste e di un’insegnante; ha studiato, così come i fratelli, si è diplomata e sta cominciando a fare supplenze nelle scuole private della zona.
Sono assolutamente sicuro che Mena nulla sapeva dei clan; certo non aveva potuto non accorgersi dei tanti morti ammazzati, ma come gran parte dei ragazzi della periferia avrà pensato che si trattava di cose che non la riguardavano.

Del resto all’epoca io avevo pochi anni meno di lei; mi era capitato di vedere i morti per strada, commentando con gli amici della piazza ciò che stava accadendo; la guerra in atto fra i rampolli del vecchio boss, defunto nel suo letto, che avevano deciso di parteggiare per il boss di Ottaviano ed i nuovi, il cui gruppo era identificato con il doppio nome di battesimo di un vecchio malavitoso ammazzato in paese, che parteggiavano per la Nuova Famiglia. E quante volte parlando degli omicidi con lo stesso interesse di cui si parlava di calcio, avevo sentito pronunciare la frase: “che ci importa, tanto si ammazzano fra loro!”.
Questa era una mentalità diffusa, da parte di chi – in buona fede ma clamorosamente sbagliando – pensava che la camorra fosse solo un problema criminale e non un cancro che stava erodendo la società dalle fondamenta.
Mena era uscita da casa – zona tranquilla del centro storico – vicino ad una chiesa di grande storia, per recarsi in una vicina lavanderia.
Alle 18,15, secondo il rapporto della polizia, era stata colpita da un proiettile, portata in ospedale, dove sempre secondo il linguaggio burocratico, giunse cadavere.
Quella sera la notizia fece il giro del paese; me ne ricordo benissimo perchè mio padre rientrando da una commissione, visibilmente scosso, ce la raccontò; conosceva il padre di Mena, con lui aveva lavorato all’Ufficio postale di Giugliano.

Fu una notizia che sconcertò tutti noi giovani e in tarda serata “radio piazza” aveva già dato la sentenza: Mena era morta per errore.
Alla disperazione dei familiari si aggiunse la beffa più crudele; il giorno dopo i giornali titolarono che Mena, definita in modo irrispettoso e superficiale come “la Maestrina”, era stata uccisa forse per motivi passionali.
Sarebbe bastata un pò più di attenzione; i bossoli trovati a terra erano calibro 9, ma di due pistole diverse; chiaro che era finita in una sparatoria fra camorristi.
Questa diversa ricostruzione venne ripresa nei giorni successivi nella cronaca locale, ma il patatrac era fatto.
Restava qualche schizzo su questa ragazza perbene e pulita.

A distanza di due anni, nella pagina di nera, si diede notizia di colui che sarebbe diventato uno dei capi dei Casalesi, francesco Bidognetti, era stato arrestato per quel delitto (ma poi assolto); era lui, stabilitosi a Giugliano per dar man forte ai nuovi vincenti, l’obiettivo della sparatoria e nel fuoco si era trovata l’incolpevole maestra.
Versione questa, confermata da vari pentiti. I genitori di Mena non si ripresero più e morirono a breve distanza di crepacuore.
Sono stati i fratelli, specie Francesco, che hanno continuato a tenere in vita il ricordo di Mena, cercando di non farla dimenticare da un paese che ha poca memoria.
Nel 1998 fu posta una lapide fuori casa per Mena uccisa dalla “criminalità”, parteciparono politici ed amministratori.
Quella pietra, davanti alla quale più volte mi sono fermato, mi ha sempre indignato; mancava la parola ancora oggi difficile da pronunciare in certi luoghi e cioè “camorra”. Di Mena abbiamo cominciato negli ultimi anni a parlare in tanti, perchè come diceva un famoso pensatore tedesco, solo chi è capace di guardare al passato può pensare di programmare il futuro.
L’amministrazione comunale le ha dedicato una strada, insieme a un’altra vittima innocente, pure ammazzata per errore (il dott. De Rosa), ma in una zona isolata dove pochi potranno accorgersene.
E’ poco… ma meglio di niente!

Oggi, però, i fratelli faranno apporre una nuova lapide, in cui sarà testualmente scritto che Mena è stata ammazzata dalla camorra, perchè chiunque passi davanti ad essa la smetta di pensare che questo cancro è un problema altrui.
Mena, del resto, non è una eroina e tantomeno voleva esserlo; è nostro dovere ricordarla perchè ha pagato anche per noi, per la nostra distrazione ed il nostro disinteresse rispetto a quanto ci accadeva (ed accade) intorno.

 

“Donne croniste di camorra”: dibattito a Giugliano, martedì 6 dicembre

“Sono quelle che non conoscono orari, né sacrifici.
Quelle che indossano scarpe basse e viaggiano con borse capienti.
Le riconosci per la curiosità nello sguardo.
Quelle che ricostruiscono un fatto, da poche parole; determinate e decise, nella ricerca della verità; instancabili ascoltatrici ed osservatrici della realtà.
Le prime ad arrivare, ad una conferenza stampa.
Fanno domande. Danno “fastidio”, perché vanno oltre.
Scrivono, ma sanno fotografare e filmare meglio di un Robert Capa.
Passione e lucidità; istinto e razionalità.
Sono quelle che la paura non le impedisce di parlare e documentare.
Seguono arresti, processi. Fanno indagini.
Spesso insultate, minacciate.
Le chiamano Croniste.
E raccontano di questa terra.
Avvinta da una piaga chiamata camorra”.
Martedì 6 novembre, alle 16.30, presso la Pro Loco di Giugliano in Campania (corso Campano n. 329), il Movimento “Contro le mafie” (presidio di Libera a Giugliano) e l’Associazione “Spazio Aspasia”, discuteranno del tema “Donne croniste di camorra”, insieme alle Giornaliste Marilù Musto, Mena Grimaldi e Marilena Mincione.

Introduce avv. Eliana Iuorio (resp. Movimento “Contro le mafie”)
Modera la Prof. Teresa Vitale (pres. Associazione “Spazio Aspasia”).
Interviene l’avv. Rossella Calabritto (penalista).

Giovedì 10 novembre 2011: Raffaele Cantone e Don Tonino Palmese a Campobasso, per Libera Molise

Organizzato da Libera Molise, giovedì 10 novembre alle ore 17,30 presso la “Sala della Costituzione” della Provincia di Campobasso si terra l’incontro dibattito “La zona grigia – Quella della società e quella delle coscienze”. Relatori d’eccezione un magistrato e un sacerdote da anni in prima fila contro la malavita organizzata: Raffaele Cantone e don Tonino Palmese. La “zona grigia” è stata introdotta vent’anni fa dallo scrittore piemontese Primo Levi nel suo libro “I sommersi e i salvati” per indicare qualcosa di nascosto, di impenetrabile, uno spazio dove si cospira, quello di coloro che in vario modo e a vario titolo e responsabilità collaborano al funzionamento della macchina del potere; “… questa zona possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere la nostra capacità di giudicare. L’Infiltrato ha intervistato Raffaele Cantone, il magistrato che ha fatto condannare importati malavitosi e capiclan come Francesco Schiavone e Francesco Bigognetti dei Casalesi. Minacciato di morte, da anni Raffaele Cantone vive sotto scorta.

La “zona grigia”, intervista al magistrato Raffaele Cantone

Dottor Cantone, cos’è esattamente quella che lei chiama la “zona grigia”?

Con “zona grigia” intendo riferirmi a quella parte della società che pur non essendo parte integrante delle organizzazioni mafiose ha con esse contatti di varia natura, soprattutto sul piano della connivenza e degli affari. E’ una realtà purtroppo che si è molto estesa negli ultimi anni e che è la vera forza di questa nuova mafia che spara sempre meno e fa sempre più affari in apparenza leciti; e se riesce a fare affari di questo tipo lo fa grazie soprattutto a questa famosa zona grigia.

Questa terra di mezzo, ovvero il collegamento tra malavita e potere politico-amministrativo, è un male italiano dalle radici antiche. A cosa può essere attribuita la genesi di questo fenomeno?

E’ difficile dirlo, perché non sono un sociologo né tantomeno uno storico; so per certo, però, che in molti snodi della vita italiana le mafie hanno svolto un ruolo di “supporto” a realtà non mafiose; gli storici, ad esempio, sono ormai concordi nel ricordare come la camorra dell’epoca (fenomeno tutto diverso da quello attuale) svolse un ruolo nel periodo in cui Garibaldi arrivò a Napoli; il famoso prefetto Liborio Romano utilizzò i camorristi per tenere l’ordine a Napoli; e persino durante lo sbarco degli alleati in Sicilia durante la seconda guerra mondiale i mafiosi giocarono un ruolo e ne ottennero non pochi vantaggi nella fase post bellica. Ma per essere più vicini ai tempi nostri, sembra accertato che le mafie abbiano svolto ruoli impropri in molte vicende anche recenti, appoggiando uomini e schieramenti politici ed influendo sui dati elettorali. E ciò che si intravede con riferimento al periodo delle stragi del 1992 lascia davvero inquieti.

Le mafie di oggi non sono più “coppola e lupara”, ma “agenzie di servizi”, come lei ha più volte evidenziato. Come si entra oggi in queste “agenzie” e dove nascono i nuovi mafiosi?

Le mafie si muovono come service soprattutto rispetto al mondo imprenditoriale; risolvono problemi e non solo agli imprenditori meridionali; quante volte grandi marchi nei settori della distribuzione di beni di largo consumo hanno concesso mandati o agenzie ad uomini dei clan? E la ragione è evidente; i clan eliminano i problemi ambientali, aiutano nell’interlocuzione con il mondo delle istituzioni, procurano danaro a basso interesse etc. Possono essere in alcuni casi alleati sì scomodi ma molto utili in logiche squisitamente utilitaristiche.

Uno dei pericoli maggiori, è che chi denuncia la “zona grigia” venga lasciato da solo. Come si combattono la paura da un lato e l’omertà dall’altra?

La paura e l’omertà si combattono da un lato non lasciando soli i coraggiosi che denunciano, dall’altro con le risposte efficienti delle istituzioni; se un imprenditore denuncia il pizzo ed arrivano subito arresti e condanne si lancia un segnale inequivocabile; e se poi quell’imprenditore viene aiutato nella fase successiva alla denuncia dalle associazioni di categoria, dalle organizzazioni di volontariato ed antiracket si  evidenzia a tutti – mafiosi compresi – che non è solo e  si stimolano comportamenti emulativi analoghi. Esempi virtuosi recenti anche in provincia di Napoli dimostrano quanto ho detto.

Lei ha fatto condannare importati malavitosi e capiclan come Francesco Schiavone e Francesco Bigognetti dei Casalesi. Oggi lei vive sotto scorta: si sente solo dottor Cantone?

Continuo a vivere sotto scorta e sicuramente ne risentono molti aspetti della mia vita privata; ma sarebbe ingiusto lamentarmi perché lo Stato spende tanto per proteggermi e farmi sentire tranquillo. Oggi mi sento molto meno solo, perché sento anche tanta attenzione da parte di molte persone anche della mia realtà; un po’ di solitudine (ovviamente sotto altri aspetti), del resto,  per un magistrato è persino fisiologica; un magistrato deve fare molta attenzione a tutti i suoi comportamenti anche privati, comprese le frequentazioni e questo in certi ambienti ti rende sicuramente un po’ più solo.

Molti giovani trovano nella “zona grigia” la soluzione a tanti loro problemi – penso alla ricerca di un lavoro – che lo Stato non riesce ad affrontare. A questi giovani che rischiano di essere risucchiati da questo buco nero, lei cosa si sente di dire? 

E’ una soluzione dei problemi che è spesso peggiore dei problemi; chi viene risucchiato in quello che lei chiama buco nero si accorge dopo di quanto è nero il buco; questa gente non regala niente a nessuno e se dà poi chiede con gli interessi.

Quello sulla Magistratura è un tema che tiene banco da anni. Lei ritiene che vi sia una necessità di riforma, e se sì, in che termini? In particolare, qual è il suo pensiero sulla ipotesi di separazione delle carriere?

E’ indispensabile una riforma che renda efficiente l’attività della magistratura; i tempi attuali della giustizia sono incompatibili con quelli di uno stato civile; su questo si dovrebbe lavorare di comune accordo con la politica, la quale, però, è spesso interessata o solo a battaglie ideologiche o a ridurre gli spazi del controllo di legalità della magistratura. Quanto alla separazione delle carriere, non solo non è utile in termini di efficienza ma rischia di essere dannosa per un sistema democratico in cui il p.m. deve avere una cultura giurisdizionale analoga a quella del giudice.

Dottor Cantone, lei oltre all’attività di magistrato è anche uno scrittore brillante. A cosa sta lavorando in questo periodo? 

In questo periodo sono molto preso dal lavoro in Cassazione, ma ho scritto abbastanza soprattutto in materia giuridica; proprio in questi giorni è uscita una voce su un’enciclopedia specialistica in materia penale di cui vado molto fiero, perché è la voce “associazione mafiosa”. Continuo poi a scrivere articoli sui giornali sui temi della giustizia che mi stanno molto a cuore; ho anche qualche idea sul piano editoriale ma non so se  poi si tradurrà in qualcosa di concreto.

(L’intervista è di Pasquale Di Bello – per www.infiltrato.it –  la foto a cura dei fotoreporters di Wrong (trasmissione web radio, in onda ogni venerdì dalle 12.00, su www.radiosiani.com )

“La mafia innominabile”, di Domenico Seccia, presentato a Foggia, con Raffaele Cantone: martedì 8 novembre 2011

Il libro ‘La Mafia Innominabile’ di Domenico Seccia, sarà presentato a Foggia martedì 8 novembre dalle ore 18.00, nella sede di Palazzo Dogana (Piazza XX Settembre, 20).
Presentazione organizzata dalla Provincia di Foggia e dal Coordinamento Provinciale di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
L’autore del libro è stato sostituto procuratore a Bari, dove nel 2003 è entrato a far parte della Direzione Distrettuale Antimafia; attualmente ricopre l’incarico di Procuratore della Repubblica di Lucera.
All’incontro interverranno, oltre all’autore del libro: Raffaele Cantone, magistrato e scrittore; Elvira Zaccagnino, Presidente della Casa editrice ‘La Meridiana’; Daniela Marcone, responsabile del Coordinamento Libera Foggia; l’avvocato Raul Pellegrini. 
Introduce e modera il giornalista Micky De Finis. Nel corso della presentazione, si terrà la lettura di alcuni brani a cura di Michele d’Errico, della compagnia teatrale ‘Il Cerchio di Gesso’ di Foggia.

(Ringraziamo Michele Carelli, per Teleradioerre).
Violenta, sopraffattrice e sterminatrice”. Non usa mezzi termini, Domenico Seccia, Procuratore Capo di Lucera, nel definire l’atavica lotta armata tra gli allevatori del promontorio. Violenta, sopraffattrice e sterminatrice questa è la faida del Gargano,  fabbrica, da oltre 30 anni, di morte e terrore. Non risparmia espressioni forti neppure
nelle pagine del suo ultimo lavoro editoriale ” La Mafia Innominabile,” pubblicato dalla edizioni la Meridiana nella collana “passaggi”. “L’idea del titolo “innominabile”   nasce – afferma il Procuratore –   durante una sentenza nella quale si diceva che la faida non poteva essere chiamata mafia  poichè non ne  aveva i contorni e si  parlava di un fenomeno mafioso più immaginario che reale. A mio avviso era una concettualizzazione di un lessico inesistente perchè non appropriato ai fatti reali. Il libro ha voluto – continua Seccia – riprendere questo passaggio che testimonia sostanzialmente come si è
concepita la mafia garganica”. 164 pagine, per raccontare di una faida di pastori nata all’ombra del santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, il più famoso luogo di culto micaelico dell’occidente latino (…) 

(Tatiana Bellizzi, per Teleradioerre).