“Football Clan” – di Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo – al Presidio di Libera Giugliano “Mena Morlando”

Il Presidio di Libera (Associazioni, Nomi e Numeri contro le mafie), di Giugliano (Na), dedicato alla Memoria di Mena Morlando (vittima innocente di camorra, nella stessa Giugliano) – nell’ambito di un ciclo di riflessioni dedicate al rapporto tra la società e le mafiepresenta, quale primo appuntamento, l’indagine sul legame tra mafie e calcio.

Football Clan Giugliano
Occasione offerta da un incontro pubblico con il Presidente onorario del medesimo Presidio (del quale “Contro le mafie” è parte), Raffaele Cantone, Magistrato da sempre impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata.
Martedì 29 gennaio, dalle 18.30, presso la sede di Libera Giugliano, nell’Istituto Fratelli Maristi (scuola parte del Presidio, in via F.lli Maristi 2), presso l’aula magna sita al primo piano del complesso, l’ing. Vincenzo Viglione, giornalista e redattore di wrongradio.com (web radio anch’essa parte del Presidio) intervisterà il Dott. Cantone, discutendo intorno al suo recentissimo lavoro editoriale, “Football Clan”, scritto a quattro mani con il giornalista de l’Espresso, Gianluca Di Feo, per Rizzoli Editore.
A presentare l’evento, l’avv. Eliana Iuorio (referente del Presidio di Libera Giugliano e redattrice di RoadTv Italia, web tv anch’essa parte del Presidio).

L’evento, gode della partnership con l’ass. Ex Alunni Maristi, dedicata a fr. Pietro Cannone.

Con il dibattito intorno al libro Football Clan, Raffaele Cantone, presidente onorario del Presidio di Libera a Giugliano “Mena Morlando”, terrà a battesimo l’iniziativa “Le cinque giornate di Giugliano, contro la camorra”, che si svolgerà sul territorio di Giugliano e Villaricca, tra il 5 ed il 9 febbraio.

Facebook: nasce la pagina dedicata a “Football Clan”, il nuovo libro di Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo, per Rizzoli Editore –

Amici di facebook,
è attiva, sul social network più seguito al mondo, la pagina dedicata a “Football Clan” – il libro di Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo, per Rizzoli – nata per dar vita ad una “lettura interattiva” dell’opera.
Segnalate tutte le recensioni, le presentazioni del libro, le interviste, i commenti, gli articoli sul tema. 
Noi.. faremo lo stesso!

Vi aspettiamo, su https://www.facebook.com/FootballClan  🙂

 

“La spia che voleva la Roma” – Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo, per l’Espresso, n. 42 del 18 ottobre 2012

L’uomo dei misteri della trattativa Stato-mafia dietro il blitz tentato nel 2008.
Lo racconta un libro sul lato oscuro del calcio.

La trattativa è cominciata a gennaio 2009, con la proposta di uno dei più rispettati giuristi italiani: Natalino Irti, ex presidente del Credito Italiano e titolare di uno studio affermatissimo. Tutto secondo le regole dell’alta finanza. Il professor Irti chiede all’avvocato dei Sensi di intavolare colloqui esclusivi per l’acquisto dell’intera società.

Spiega di agire per conto di un cliente molto noto nell’ambiente sportivo: l’agente Vinicio Fioranelli, attivo nel calciomercato di tutta Europa. Fioranelli è nato nelle Marche ma ha fatto fortuna in Svizzera, prima come ristoratore poi come rappresentante di giocatori. Da procuratore tratta nomi di buon livello – Karl-Heinz Riedle, Thomas Doll, Dejan Stankovic e Marcelo Salas – e si impone nella cerchia della Lazio da scudetto diSergio Cragnotti. Sa che i Sensi devono vendere e che Unicredit vuole liberarsi il prima possibile della squadra. Dice di avere pronti 200 milioni di curo. Ma quando si tratta di scoprire le carte, invece di tirare fuori i quattrini fa entrare in scena un socio tedesco con un cognome da gotha: Volker Flick. Lo presenta come un discendente della dinastia dei magnati dell’acciaio, “parente di Mick e Muck, i due fratelli che possedevano la Mercedes, e che ha già 300 milioni di euro in caldo per chiudere il contratto. Non ci credete? Eccovi le coordinate telematiche del suo conto, controllate pure…”.

Ma gli advisor che hanno affiancato la proprietà non si fidano di quella certificazione elettronica. li vicedirettore di Medio-banca Maurizio Cereda vuole però andare avanti nella trattativa e organizza lunghe riunioni di avvocati tra Roma e Zurigo per concordare il pagamento: Fioranelli accetta di mettere 300 milioni di euro su un conto vincolato fino alla fumata definitiva. Dice a Mediobanca che è disposto a lasciare una quota simbolica delle azioni e la presidenza a Rosella Sensi, poi il giorno dopo ci ripensa: “I tifosi non la amano, preferisco fare a meno di lei». C’è un solo problema: i 300 milioni non si vedono. Mediobanca sollecita il bonifico concordato, ma Fioranelli si arrampica sugli specchi e prende tempo. Nemmeno i venditori vogliono staccare la spina, implorano almeno un segno di buona volontà: «Ci faccia parlare con la sua banca per trovare una soluzione…”.

Per due settimane lui si nega, lascia il telefono al figlio. 22 giugno, i banchieri danno l’ultimatum: altri tre giorni, poi salta tutto. Così avviene: il sogno si chiude con un breve comunicato ufficiale. Mediobanca però, ancora non sbatte la porta. Il vicedirettore centrale Cereda dichiara: “Ho avuto contatti con il Fioranelli fino alla domenica successiva, il 28 giugno; ho fatto presente che il discorso poteva essere ripreso qualora si realizzassero le condizioni…”. Quando scade l’ultimatum dei Sensi, i finanzieri del Nucleo centrale valutario si sono già fatti un’idea precisa su chi c’è dietro quella trattativa. Anzitutto Herr Flick. Non è parente della famiglia della Mercedes: risulta avere gestito malamente un negozio di mobili, con tanti debiti da venirgli vietato di emettere assegni. Poi si è fatto notare per una fantasiosa sequela di iniziative. Nel 2007 la Deutsche Hank lo ha sorpreso mentre cercava di fare un bonifico telematico da mezzo miliardo di euro. L’anno dopo viene beccato mentre propone al premier turco Erdogan un investimento da un miliardo di dollari. Operazioni sempre virtuali, che trovano una spiegazione quando le intercettazioni captano le conversazioni tra Fioranelli e un misterioso personaggio attivo tra Italia e Svizzera, uno che si fa chiamare “generale Bruni” o “generale Rivera“. Al telefono “il generale vanta rapporti con I’intelligence americana e araba, nonché entrature nelle principali banche del pianeta, incluso lo lor del Vaticano“.

Per gli investigatori è una vecchia conoscenza: si tratta di Elio Ciolini. Un nome che ha segnato la storia delle trame italiane. Nel 1982 è nella stessa prigione ginevrina di Licio Gelli e parla di una pista internazionale per la strage di Bologna, indicando una misteriosa loggia massonica di Montecarlo. Per i magistrati è un depistaggio, con oscuri mandanti che un vero generale del Sismi identifica proprio nella P2. Dieci anni esatti dopo, mentre la Prima Repubblica viene abbattuta dalle bombe di mafia, il solito Ciolini evoca un golpe per destabilizzare il Paese. Le sue elucubrazioni trovano ascolto al ministero dell’Interno, scatenando la massima allerta. Nel 2001, alla vigilia delle elezioni Silvio Berlusconi parla ai giornalisti di un piano per assassinarlo. La questione campeggia sulle prime pagine. Poi spunta l’origine delle rivelazioni: sempre lui, sempre Ciolini.

Ascoltando i telefoni, gli investigatori si convincono che dietro Fioranelli ci sia l’uomo dei depistaggi. Lo definiscono “l’istigatore” della scalata alla Roma, che ora assume il profilo di una colossale operazione di riciclaggio. E con Ciolini c’è un altro asso di denari, sempre dietro le quinte. Si chiama Vittore Pascucci: è stato arrestato con un vecchio capo di Cosa nostra; ha avuto rapporti con lo storico cassiere della ‘ndrangheta lombarda; si è mosso assieme ai riciclatori del clan camorrista Galasso. Al suo fianco sono passate generazioni di faccendieri, da Pierluigi Torri a Flavio Carboni. Pascucci e Ciolini risorgono sempre dalla cenere delle loro imprese. Nel 2008 hanno in cassaforte una ventina di certificati di credito del governo americano “per un valore complessivo di 565 miliardi di dollari Usa”, come recita testualmente l’atto d’accusa. Carte che intendono trasformare in soldi veri. Puntando sulla Roma. Il piano viene smascherato nella primavera 2010 con l’arresto di Fioranelli e Ciolini, accusati di avere ingannato le autorità di Borsa. Il maestro delle trame scompare nel nulla. Invece l’agente dei campioni finisce in manette e patteggia una condanna a un anno e dieci mesi. E stato una vittima? L’ordine di cattura lo definisce un complice. Il documento ricostruisce un altro tentativo inedito di entrare in Serie A: nel 2008 lui voleva prendere il Bologna.
E lo avrebbe fatto contando su un altro stock di titoli sospetti, questa volta brasiliani. In quella occasione Fioranelli ha preteso di inserire nella bozza di accordo una clausola specialissima: “Se il contratto non viene concluso, le pagine devono essere distrutte“.

“Football Clan” – perchè il calcio è diventato lo sport più amato dalle mafie – di Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo. La recensione di Marco Imarisio, per Corriere della Sera

Ricordiamo che “Football Clan”, di Raffaele Cantone con Gianluca Di Feo (Rizzoli Editore), sarà in tutte le librerie a partire da mercoledì 10 ottobre 2012 (ndr)

 

I boss e il fascino del calcio tra affari e scommesse

Da Maradona a Balotelli, un saggio-inchiesta

 

“Nessuno ha voglia di sentirsi dire che la propria fidanzata è donna di facili costumi”.

Data la premessa d’obbligo, ne consegue che Football clan è opera coraggiosa in quanto potenzialmente indigesta, soprattutto ai tifosi con il paraocchi incorporato.

La fidanzata in questione è sua maestà il calcio, il Grande monopolizzatore delle nostre serate. Il libro di Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo parla in buona sostanza dei rapporti tra mafia e pallone. Ma non è solo un garbato atto d’accusa a un sistema così indulgente con se stesso da chiudere sempre gli occhi davanti a contaminazioni sempre più evidenti. È anche una sorta di breviario, la storia di un fenomeno da non sottovalutare ricostruita con il gusto dell’aneddoto.

Football clan identifica il momento in cui cominciò la fascinazione della malavita per lo sport con gli atroci Mondiali del 1978 nell’Argentina dei generali. Dedica un lungo capitolo alla fenomenologia di Diego Armando Maradona, il campione che ha sdoganato l’abbraccio con la malavita. Si infila nella leggerezza incosciente degli idoli di oggi, dalla visita di Mario Balotelli a Scampia sotto braccio a personaggi che manco a Medellín, passando per le disinvolte amicizie di Fabio Cannavaro fino ad arrivare alla passione collettiva dei nostri eroi per le scommesse sportive. C’è ampio spazio per spregiudicate avventure imprenditoriali con capitali di dubbia provenienza, come quella tentata dal compianto Giorgio Chinaglia per riprendersi la sua Lazio, o l’incredibile scalata alla Roma e al Bologna da parte di fantomatiche cordate che facevano capo a Vinicio Fioranelli. La bozza di accordo per l’acquisto del club rossoblu comportava una clausola che trasudava dirittura morale: «Se il contratto non viene concluso, le pagine devono essere distrutte».

Ma è dalla periferia che si ha la visuale migliore sull’impero. Non ci sono soltanto nomi famosi in queste pagine, ma anche sconosciuti campi di provincia, storie minime che diventano esemplari. Sono i capitoli più belli del libro perché restituiscono la fragilità di un mondo e di chi lo abita, spiegano al meglio il fascino esercitato sulle mafie dal calcio, una terra promessa di ricchezza e potere. Nel nome della quale si può truffare, rubare, uccidere.

L’ultimo ingaggio del «Pampa» Sosa, vecchio attaccante finito in una Sanremese gestita da un clan di ‘ndrangheta, comincia con toni surreali alla Osvaldo Soriano per virare all’improvviso in tragedia, e da sola varrebbe il libro. La promozione in serie C del Crotone, comprata dai rivali del Locri in cambio di una fornitura di bazooka e kalashnikov, il sistemone inventato dalla camorra di Castellamare di Stabia: davanti a queste realtà, chi ha bisogno della fantasia?

Football clan ha il grande merito di non essere un libro scritto con il ditino alzato, ma con spirito costruttivo. Cantone e Di Feo, magistrato che tanti arresti addusse ai Casalesi il primo, giornalista nato al Corriere della Sera e attuale caporedattore a L’Espresso il secondo, sono entrambi innamorati della legalità e del calcio. La bella idea iniziale avrebbe potuto condurli nella sociologia e nel moralismo pesante. Loro invece si sono limitati a raccontare storie così vere da sembrare incredibili.

Hanno scelto la via leggera, costruendo un saggio che sembra un romanzo. E in questo modo sono riusciti a lanciare un credibile allarme su un sistema dagli anticorpi deboli, ma ancora in grado di svilupparli.

 

Marco Imarisio  – Corriere della Sera web, 7 ottobre 2012

“Scandalo scommesse? Molto millantato credito” – Raffaele Cantone, intervistato da Giulio Mola, per Quotidiano.net: venerdì 10 giugno 2011.

Dal 1999 al 2007 è stato pubblico ministero presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. “Il pallone e la malavita si incrociano di frequente, soprattutto nei campionati minori, dove la gestione delle squadre porta ai clan grandi vantaggi”

Milano, 10 giugno 2011 – “Il calcio è nelle mani della camorra, almeno fino a quando i clan malavitosi hanno interessi e fanno affari col mondo del pallone”. Non ha dubbi Raffaele Cantone, 48 anni, magistrato napoletano: dal 1999 al 2007 è stato Pubblico Ministero presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, periodo in cui ha condotto le maggiori indagini contro la camorra campana.

L’uomo che ha scritto la parola “mai” sulla data di fine pena dei padrini Schiavone e Bidognetti vive blindato ormai da 8 anni, con cinque agenti di scorta che lo seguono quotidianamente negli spostamenti, anche ora che lavora alla Corte di Cassazione.

Gentile, disponibile, sorriso limpido da uomo giusto, il dottor Cantone si è sempre battuto contro la malavita organizzata raccontando episodi e strategie in alcuni libri, nell’ultimo dei quali (‘I Gattopardi’), dedica un capitolo ai rapporti fra calcio e malavita.

Il suo impegno ha dato parecchio fastidio ai clan, tanto da finire nei progetti criminali del boss Augusto la Torre, che a lungo lo ha fatto pedinare arrivando persino a progettare un attentato nei suoi confronti. Però è riuscito ad assicurare alla giustizia le primule rossi più feroci dei clan scoprendo che fra i loschi affari dei Casalesi e di altri gruppi c’erano proprio quelli che si intrecciavano col pianeta calcio.

“Il pallone e la malavita si incrociano di frequente, soprattutto nei campionati minori, dove la gestione delle squadre porta ai clan grandi vantaggi: consolida il consenso, avvicina alla politica, alle istituzioni, all’imprenditoria. Fra le tante immagini della DDA su usura, estorsioni e partite truccate, non solo quelle emerse negli ultimi giorni, soprattutto nella zona di Castellamare di Stabia veniva dimostrato che esiste una nuova frontiera intorno al sistema delle scommesse, sempre aperto e in tempo reale. Il giro dei soldi è enorme, il fronte tecnologico permette alla camorra di pilotare le puntate, anche nelle corse dei cavalli. E un rischio simile esiste anche nelle corse dei cavalli”.

Dunque, non c’è poi così da stupirsi se il figlio di un boss si fa riprendere ai bordi del terreno di gioco del San Paolo ad assistere ad una partita del Napoli…

“Io non so cosa ci facesse Antonio Lorusso (figlio di Salvatore, ndr), a bordocampo, è strano ma non mi stupisce. La verità è che da sempre la malavita ha interesse a farsi vedere al fianco di campioni, questo serve come “biglietto da visita” per avere maggior potere nel controllo del territorio. Se poi ci sia dell’altro questo non posso dirlo, ma in futuro sarà molto importante vedere a chi sono dati gli accrediti e chi li gestisce”.

Ma lei come è arrivato a individuare i loschi intrecci fra malavita e società di calcio?

“Avevo verificato quanto accaduto in varie indagini, dove c’era la percezione di un doppio interesse della criminalità: da un lato il calcio era uno strumento per creare consenso, e difatti abbiamo visto quanti imprenditori si siano avvicinati a questo mondo; dall’altro non passava inosservato il grande giro di denaro, fra merchandising, bagarinaggio e scommesse, tutte cose che facevano e fanno gola alla criminalità. Gli esempi concreti, in tutte le serie, sono sotto gli occhi di tutti”.

A cosa si riferisce?

“Beh, la storia dell’Albanova è la più datata ma pure la più eclatante. Era gestita dagli Schiavone e al vertice c’era dante Passarelli, titolare di uno zuccherificio che vinceva tutti gli appalti per la refezione delle mense. Il presidente della Mondragonese, invece, era il reggente del clan. E ancora, la vicenda Lazio: per quanto abbia portato a delle assoluzioni, ha dimostrato che ci sono stati legami strani tra malaffare e pallone. Tant’è che mi risulta che nei confronti di Chinaglia ci sia ancora un procedimento in corso, visto che è irreperibile”.

Bisognerebbe ricordarsi più spesso di queste storie, sembra che tutto il marcio stia venendo fuori adesso…

“Ma no! Guardi, quanto accaduto nei mesi scorsi a Potenza è il classico esempio di come una squadra possa essere utilizzata per svolgere varie funzioni in un’ottica criminale: ovvero riciclare soldi, controllare le scommesse e avvicinare ambienti lontani, che invece all’interno di uno stadio diventano più abbordabili”.

Ma possibile che non ci siano interessi veri e propri solo per il pallone?

“Diciamo che ci sono soprattutto interessi personali. Scoprimmo che Pasquale Zagaria, boss dei casalesi, aveva fatto pressioni perché un ragazzo facesse il provino col Parma. Il tentativo non andò a buon fine, eppure Zagaria a Parma aveva attività imprenditoriali e contatti con esponenti di molte città. Vede, quel che per molti è divertimento, per altri diventa solo arricchimento sociale e personale. E le mafie si sono accorte delle potenzialità del calcio e hanno deciso di sfruttarle”.

Ma i calciatori sono consapevoli di quel che succede attorno a loro?

“Il discorso è diverso. Spesso i calciatori hanno rapporti con certa gente per questioni collegate al tifo. Altre volte vengono avvicinati per motivi diversi, ma l’interesse è quasi sempre del clan che vuol prendere prestigio e consensi. Che poi i risultati arrivino o meno poco importa”.

In che senso, scusi?

“Prendete la vicenda dell’Albanova, che pure arrivò a sfiorare la serie C1. In realtà l’interesse dei clan non era meramente sportivo, non interessavano i successi, e difficilmente gli investimenti dei clan portano a grandi risultati. Loro utilizzano il calcio come un autobus da cui scendere quando sono arrivati a destinazione, perciò ogni tanto ci sono squadre che spariscono e imprenditori che non hanno il coraggio o la voglia di investire. Insomma, l’interesse delle mafie è transitorio. Tant’è che l’Albanova e la Mondragonese, società che ho seguito da vicino, sono sparite nel nulla. Ora vi chiedete perché al Sud non nasce un Chievo o un AlbinoLeffe?”

In effetti società modello come queste non ce ne sono…

“Peggio, spariscono pure quelle delle grandi città. In Campania c’è solo un club di A, la salernitana lotta per risalire, la Casertana e l’Avellino sono molto lontano. E in Calabria resiste solo la Reggina, guardate invece che fine ha fatto il Catanzaro… La verità è che la presenza della criminalità organizzata diventa un limite per imprenditori coraggiosi, e i boss hanno fra le mani società piccole e spesso oltre la C2 non vogliono andare”.

Quindi si accontentano di poco…

“E’ quel che basta per soddisfare i loro interessi: un controllo sociale. E il calcio è lo strumento migliore per creare consenso. Anche perché allo stadio ci va il sindaco, e poi assessori, consiglieri, imprese, sanità. E’ questo il vantaggio economico”.

Quindi niente programmazione, nessuna ambizione…

“Direi che la prima cosa, per i boss, è non rimetterci soldi. Ed evitare di esporsi troppo all’esterno per non subire controlli. Poi ci si ferma. L’importante è che certi meccanismi siano ben rodati: quindi è verosimile che qualcuno, soprattutto nei campionati minori, usi una società solo per entrare nel giro delle scommesse. Queste cose nelle serie minori sono pericolosissime, anche perché in certi campionati i controlli sono minori, almeno fin quando non scattano inchieste come sta succedendo adesso, dove viene fuori tutto il marcio. Non dimentichiamoci che le tentazioni sono maggiori, le difficoltà economiche sono evidenti, i calciatori a certi livelli guadagnano molto meno e spesso non vengono pagati per mesi. Perciò arriva qualcuno e se ne approfitta. Però anche qui attenti..”

Ci dica…

“L’inchiesta di Cremona conferma che a volte bastano piccoli gruppi ma ben organizzati per giocare cifre pure non esagerate e falsare le partite. Purtroppo quando si è legalizzato il sistema scommesse, a tutto si è pensato tranne che a valutare possibili controindicazioni. Questa è una grave pecca dello Stato…”

Quando vede prima Maradona, poi Hamsik, quindi Balotelli fotografati con i boss, cosa le viene in mente?

“Sono storie emblematiche. Vede, per i giocatori sono foto come altre, valgono invece molto di più per i camorristi. Con quelle immagini loro provano che possono arrivare a chiunque. E’ un segno di potere. Tutto il resto serve solo a far rumore dal punto di vista mediatico, ed è quello che i clan vogliono. A rimetterci è solo l’immagine del nostro calcio a livello internazionale”.

Scusi, ma i clan come arrivano a Balotelli?

“Grazie a quelli che io chiamo i “gattopardi”. Gente in giacca e cravatta che media offrendo ai clan la possibilità di mettersi in mostra”.

La mafia e la camorra hanno interessi col pallone pure al nord Italia?

“Non escludo che certi personaggi dell’imprenditoria legati alla malavita possano arrivare su, casi ce ne sono stati. Però al sud è più facile accorgersi di certi legami: penso alle squadre siciliane che mettono il lutto al braccio per la morte di un boss, o quelle in Calabria che si fermano per ricordare i capi arrestati”.

Non posso che chiederle un giudizio sull’inchiesta di Cremona…

“Penso ci sia molto millantato credito, ma grossi coinvolgimenti non ne vedo. Anche perché molte gare non sono finite come si prevedeva. Leggendo le intercettazioni sembra di assistere ad una gara a chi la spara più grossa, ma i segnali più inquietanti sono quelli di società minori o singoli gruppetti che vogliono fare affari. Però la mia idea è che se un calciatore commette illeciti, non è giusto che paghi la squadra”.

Com’è la sua vita sotto scorta?

“In otto anni sono cambiate tante cose. Però quattro-cinque volte l’anno alla stadio ci vado a vedere il mio Napoli. Sperando in un calcio pulito…”

“Sport pulito e simboli da proteggere”. Raffaele Cantone ne “Il commento”, su “Il Mattino” di Napoli, ed. nazionale di lunedì 6 giugno 2011.

Il tour dell’ex attaccante dell’Inter, Mario Balotelli, nelle terre di Gomorra e nei quartieri più degradati della periferia napoletana, offre lo spunto per alcune riflessioni, soprattutto in questi giorni, quando inchieste giudiziarie ripropongono il calcio quale strumento per attività criminali, come le scommesse clandestine legate alla compravendita delle partite. Al di là delle responsabilità penali, tutte da dimostrare e che, come appare dalla lettura delle cronache giornalistiche relative alla passeggiata di Balotelli a Scampia in compagnia di due esponenti della camorra, sembrerebbero inesistenti, ci sono da considerare i risvolti sociali di un simile comportamento. E questi sono senza dubbio censurabili.
In premessa, sarebbe interessante sapere attraverso quali canali Balotelli sia stato contattato e convinto ad accettare la trasferta a Secondigliano.
Trasferta finalizzata a soddisfare la sua curiosità, come lui stesso ha dichiarato, rispetto al funzionamento della più grande piazza di spaccio d’Europa, e ad accontentare la tifoseria alla quale ha concesso autografi e foto ricordo.
Quei canali sono preclusi a un qualunque altro tifoso, che mai potrebbe immaginare di poter ospitare un campione nella sua casa.
Quindi, nonostante i precedenti, il mondo del calcio, anche del grande calcio, ha continuato a mantenere rapporti stabili e di natura imprecisata con la criminalità organizzata.
Mafia, camorra, ’ndrangheta, dunque, continuano a spendere il loro potere di relazioni per acquistare consenso negli ambienti popolari e delle tifoserie organizzate.
Se le immagini di Maradona assieme ai fratelli Giuliano appartengono ormai allo storia, e sono state di sovente giustificate come bizzarrie di un grande campione, esistono quelle molto più recenti che ritraggono Marek Hamsik in compagnia di altri esponenti di vertice della camorra, che le hanno utilizzate per trasformare il calciatore in icona, in «propria» icona. E qui si aggancia l’altra considerazione.
E cioè quella del rapporto dei campioni dello sport con i giovani, con la società civile, con le tifoserie.
Personaggi visti, oggettivamente, come simboli.
E a loro non può non competere la responsabilità, per questo, di essere simboli positivi: di riscatto sociale e di capacità personale premiata attraverso i successi sportivi, la fama, il denaro.

Se sporcano la loro immagine con frequentazioni dubbie e censurabili, se aderiscono acriticamente alle richieste che arrivano dai loro agenti e accettano i tour nelle Vele di Scampia, inquinano il simbolo e il valore sociale proprio e dello sport.

“Calcio e mafia? Porta d’ingresso nella società”. Antonio Massari intervista il Dott. Raffaele Cantone, per l’edizione di giovedì 13 gennaio 2011 de “Il Fatto Quotidiano”.

Nel suo ultimo libro sulle mafie I Gattopardi (Mondadori), scritto in collaborazione con il giornalista de L’espresso Gianluca Di Feo, il giudice Raffaele Cantone dedica un intero capitolo al calcio. Da ex pm dell’antimafia di Napoli, Cantone, ha indagato per anni – ottenendo condanne su condanne – sul clan dei “casalesi”.

Quanto e perchè è importante il calcio per le mafie?
E’ molto importante e per diversi aspetti: il consenso, il guadagno economico, il vantaggio di poter intrecciare relazioni che contano.
Il rapporto tra calcio e mafie va monitorato con costanza, a partire dal bagarinaggio e dal merchandising abusivo, passando dal settore delle scommesse finendo ai procuratori dei calciatori.

La Procura di Napoli indaga su una partita di Serie B, Albinoleffe-Piacenza, perchè potrebbe essere stata truccata e si sospetta l’influenza della camorra: non la sorprende che possa arrivare a influenzare una partita del secondo campionato italiano?
Il discorso è complesso e va guardato da più angolazioni.
Partiamo da un dato storico: la legalizzazione delle scommesse è un fatto recente, ma la camorra ha sempre gestito il suo mercato clandestino. I clan avevano bisogno di un esperto che organizzasse le quote. I “casalesi” commissionavano le quote a Napoli. Era un’organizzazione raffinata. Con la legalizzazione del gioco, questa professionalità è soltanto affiorata alla luce del sole. La differenza è che oggi le mafie – e questo avviene soprattutto nelle serie minori – vogliono spingersi più in là: fino a controllare le società di calcio.

In questo caso parliamo di una presunta partita truccata in Serie B.
Le parlo in generale, senza entrare nel caso specifico, ma un fatto è certo: quanto più la partita è importante, tanto più è difficile condizionarla. Per un motivo semplice: la guardano in troppi.
In tanti si accorgerebbero se un calciatore, per esempio, si facesse espellere senza motivo. Il rischio di combine aumenta nelle serie minori. Il punto, però, è che anche la Serie B è diventata una serie minore: la fetta più grossa degli introiti – a partire dai guadagni sui diritti televisivi – riguarda la Serie A. 
La conseguenza è che le società dei campionati minori, arrivando fino alla “B”, rischiano di finire nelle mani di avventurieri disinteressati allo sport, ma concentrati sul guadagno che deriva dal gestire una squadra.
E’ in questo contesto che l’inquinamento si fa maggiore.
Un controllo preventivo sugli acquirenti di una società di calcio potrebbe arginare gran parte dei rischi.

Qual’è il nesso tra mafia, calcio e consenso?
Le mafie hanno bisogno di consenso e legame con il territorio: il calcio assolve questo ruolo perfettamente.
E questo può avvenire in molti modi: se il boss riesce a farsi fotografare con Hamsik, nel suo contesto, quella foto gli dà molto più consenso e potere di un ritratto con madre Teresa di Calcutta, giusto per fare un esempio.
In passato, Raffaele Cutolo si fece fotografare con Juary. Anche la gestione di una squadra, e questo vale per le serie minori, crea consenso sul territorio. Ma c’è un altro aspetto importante: in tribuna s’incontrano mondi diversi e la mafia sfrutta l’occasione per intrecciare legami con politici, amministratori, imprenditori. Legami che poi tenta di sfruttare a proprio vantaggio.
Il calcio diventa così una porta d’ingresso nella società.

I nostri auguri speciali, per un ragazzo speciale…

MARADONA : CALCIO = CANTONE : DIRITTO

Questa magica equazione ha accompagnato gli auguri di Buon Natale che i ragazzi di “Contro le mafie” hanno espresso a Raffaele Cantone, ieri sera.

E siccome un Grande Campione, da noi, qui in provincia di Napoli, indossa il numero 10 (sebbene per noi tutti sia il NUMERO 1!!!)…

…questo è l’unico regalo che potevamo pensare di offrirgli!!! 🙂

BUON NATALE, DOTT. CANTONE!!!!!!

TANTISSIMI AUGURI, CON TUTTO IL NOSTRO CUORE.

TUTTA LA FELICITA’ DEL MONDO, PER UN ANNO MERAVIGLIOSO!!!! 😉

(FOTO di Salvatore Micillo, per “Contro le mafie”).

Cantone: “Il calcio è strumento di controllo sociale delle mafie”. Corriere del Mezzogiorno, mercoledì 1 dicembre 2010.

ROMA — Raffaele Cantone, giudice di Cassazione, uno dei pm che ha fatto la storia (giudiziaria) della lotta ai Casalesi. Che ci fa un intero capitolo sul calcio nel libro di un magistrato antimafia?
«C’entra eccome. Il calcio è un pezzo della società. E un tentativo di leggere i rapporti tra questa società e la mafia non può prescindere dal pallone».

Che fa, butta in inchiesta anche ventidue in pantaloncini che corrono dietro a una palla?
«Quello che per molti è divertimento, per altri è un arricchimento personale e sociale. Le mafie si sono accorte delle potenzialità del calcio. E le sfruttano».

Be’, detta così a lottare per lo scudetto dovrebbero essere le squadre dei casalesi, dei boss mafiosi, dei calabresi della ’ndrangheta. E invece…
«E invece no. Ché l’interesse delle mafie è transitorio. Il problema è proprio questo».

Quale?
«Il Sud non avrà mai un Chievo. Non avrà mai un miracolo sportivo come accade al Nord. Le mafie, qui, fanno male anche al calcio. E i boss oltre la serie C2 non vogliono andare».

Raffaele Cantone, in 55 minuti e 48 secondi di conversazione, si dice almeno quattro volte «felice» di stare dov’è, al Massimario della Cassazione. Quando parla, però, il tono è quello di un ufficiale spostato dal fronte al quartier generale che non vede l’ora di rimettersi l’elmetto. I clan di Gomorra, quelli che ha sempre combattuto, continua a studiarli anche dal Palazzaccio di piazza Cavour a Roma. E ora ha preso a studiare anche «medici, architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, banchieri, funzionari locali e uomini delle istituzioni». Sono «I Gattopardi», titolo del libro che ha scritto con Gianluca Di Feo (Mondadori) e che ha presentato ieri. 

Raffaele Cantone, ci spiega perché è così sicuro che il Sud non avrà mai un Chievo?
«Semplice. Quella è una squadra del quartiere di una città, Verona, che ha meno abitanti di molti paesi della Campania. Eppure è arrivata in serie A».

E questo con le mafie che c’entra?
«Qui molte squadre piccole, com’era piccolo il Chievo una volta, sono in mano ai boss».

Che se ne fanno?
«Hanno un interesse al controllo sociale. E quale miglior strumento per creare consenso che non sia il calcio?».

Ma se le squadre non fanno molta strada alla fine…
«Alla fine gli servono comunque, perché il calcio è un modo per entrare in contatto con istituzioni, società civile. Allo stadio ci vanno sindaco, assessore, consigliere regionale. Sanità e imprese rappresentano lo strumento di vantaggio economico, il calcio serve ad avvicinare settori altrimenti distanti».

Insisto, se fosse così sa quanti «miracoli» sportivi?
«Lo sport per i boss è un autobus da cui scendere a un certo punto. Le mafie non ci vogliono rimettere soldi e soprattutto non vogliono uscire all’esterno per evitare troppi controlli».

Esiste un limite?
«Sì, non vogliono andare oltre la C2. Non programmano. E impediscono agli imprenditori veri di pianificare. Tutto questo ha un effetto disastroso sulla crescita delle squadre».

Insomma, i boss incassano «adesioni» con il calcio?
«Certo. E la storia di Hamsik è emblematica».

Hamsik? E che avrà fatto mai?
«Niente. Ma mentre il Napoli cerca addirittura di allontanarsi dalla città, lui, un bravo ragazzo, uno casa e chiesa, viene fotografato con un criminale».

Che doveva fare, chiedergli il certificato penale?
«No, per lui non vale niente, è una foto tra le tante. Vale invece per quel camorrista: è la prova che riesce ad arrivare ad Hamsik, a chiunque. È un segno di potere».

Foto in giro con criminali ce n’erano anche di Maradona, dov’è la novità?
«Qui è peggio. Maradona conosceva esponenti della camorra. Hamsik invece è anni luce distante da quel mondo, e questo significa che oggi c’è chi lavora per mettere in contatto due realtà così distanti. Io per far fare a mio figlio una foto con Hamsik ho dovuto chiedere non so quante autorizzazioni. E quello, il camorrista, come c’è arrivato?»

Lo sa?
«Grazie a uno dei gattopardi, gente in giacca e cravatta che media offrendo ai clan la possibilità di mettersi in mostra».

È questo che la spaventa? I nuovi mediatori?
«È questa la nuova mafia. I gattopardi sono quelli che la criminalità organizzata non la subiscono, ma la utilizzano come sistema che risolve questioni. Prima c’era la camorra predatoria, oggi c’è il mafia service. E questi due mondi, quello criminale e quello della società presunta civile, non dialogano direttamente. Si servono di mediatori».

Il federalismo favorirà questi mediatori?
«Il federalismo avvicina il centro della spesa agli interessi del clan, ma questo non deve diventare un alibi per non attuarlo. È un problema di controllo e classe dirigente. E la selezione dei politici non si può far dipendere dai magistrati».

Dicono che è proprio ciò che fate.
«La politica usa come paravento le iniziative giudiziarie per non fare pulizia al proprio interno. Il concetto è che la presunzione di innocenza ha grande valore nel mondo penale, ma vale zero in quello politico. Se uno viene assolto, se anche le sue frequentazioni dubbie non si riescono a provare in aula, questo non significa che sia una figura spendibile. La politica dovrebbe arrivare prima delle inchieste».

Ecco, a proposito di inchieste. Quanto ha inciso Roberto Maroni nella cattura dei latitanti?
«Moltissimo. Non ricordo un ministro venuto tante volte a Caserta a metterci la faccia. Sembrano gesti simbolici, invece sono più importanti di qualsiasi piano sicurezza».

Saviano ha detto che Maroni ha utilizzato con lui la stessa espressione di Francesco Schiavone, il capo dei Casalesi.
«Roberto è stato infelice nel paragone, ma il ministro ha sbagliato a ritenere quell’accusa politica un’offesa personale».

Sempre in quei giorni, il capo della squadra mobile di Napoli ha fatto portare via Antonio Iovine da poliziotti a volto scoperto. Dice che se bisogna chiedere coraggio ai cittadini non bisogna mostrarsi incappucciati ai boss. Giusto?
«Quella di Pisani è stata una scelta intelligente nel caso concreto. Il nuovo piano contro le mafie, però, prevede gli agenti infiltrati, quindi i loro volti dovranno restare nascosti. Ciò detto, Pisani ha accettato anche le critiche che gli sono state mosse con grande senso istituzionale».

Almeno lui…
«Be’, anch’io posso dire di averle sempre accettate».

Sì? Provi a criticare un pm…
«Il problema c’è, è vero. E la stampa dev’essere un organo di garanzia nei confronti delle indagini: non ci vedo nulla di male se muovono delle critiche in maniera onesta. C’è bisogno di giornalisti che pongano questioni sulle inchieste, e oggi invece spesso noto una stampa ridotta a un velinismo acritico, a passare carte degli uffici giudiziari e di polizia e basta».

Scusi, ma come funziona ’sta storia. Guai a criticare i pm, e poi è la stampa che passa veline? Ha del paradossale.
«È una tendenza oggettiva, e riguarda la possibilità di procurarsi gli atti giudiziari. Esiste un meccanismo di sudditanza psicologica, per cui se un magistrato mi passa una carta, non ne criticherò l’inchiesta. E lo stesso vale per avvocati e forze dell’ordine, che non censurerò mai. Sono debiti di favore. C’è una grande ipocrisia, e penso sia giunta finalmente l’ora di dare ufficialmente gli atti d’inchiesta pubblici ai giornalisti».

E come?
«Riconosciamogli il diritto alle copie, come agli avvocati».

C’è un ultimo giallo da svelare: è vero che Fazio e Saviano l’avevano invitata a «Vieni via con me»?
«Sì».

Perché non c’è andato?
«Gliel’ho sconsigliato io stesso. Di più non posso dire».

Cosa avrebbe voluto fare?
«Sarei stato felice di leggere anch’io un elenco».

Il titolo?
«Tutti i pm che hanno combattuto i Casalesi».

Ce l’ha a memoria?
«Carlo Visconti, Federico Cafiero de Raho, Franco Roberti, Francesco Curcio, Francesco Greco, Antonello Ardituro, Alessandro Milita, Marco Del Gaudio, Annamaria Lucchetta, Giovanni Conzo, Raffaello Falcone, Catello Maresca, Cesare Sirignano».

(Raffaele Cantone intervistato da Gianluca Abate per il Corriere del Mezzogiorno, 1.12.10  http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2010/1-dicembre-2010/cantone-il-calcio-strumento-controllo-sociale-mafie-1804283895595.shtml Foto di Ilaria Ascione e Lorena Mirengo).