Cantone dice no ai democratici. “Io resto a fare il magistrato”

di Dario Del Porto – Repubblica, edizione nazionale di mercoledì 2 gennaio 2013

controlemafie ph. (c)

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NAPOLI – “La lotta alla mafia non dovrebbe mai trasformarsi nella battaglia tra i polli di Renzo. Le divisioni, in questo campo, possono fare più male degli stessi mafiosi”.
Il Pd lo voleva in Parlamento, ma il giudice che ha sfidato Gomorra non andrà a Montecitorio.
“C’è chi scende in politica e chi ci sale, io ci sto fermo. Preferisco continuare a fare il magistrato”, dice Raffaele Cantone, oggi in Cassazione, da anni sotto scorta per le sue indagini contro il clan dei Casalesi. La sua, spiega, “è una scelta frutto di una riflessione profonda, che non vuol essere una critica nei confronti di chi ha maturato decisioni diverse, sulla quale hanno forse influito anche le polemiche degli ultimi giorni”.
Si riferisce allo scontro tra Ingroia e Grasso?
“Sì. Non mi sembra il viatico migliore per una legislatura che dovrà mettere al centro la lotta alla mafia. Ho rapporti di amicizia con Antonio Ingroia, ma non trovo giustificate le sue parole nei confronti di Piero Grasso”.

Perchè?
“Innanzitutto, non è vero che sia stato nominato procuratore nazionale antimafia da Berlusconi. E’ un fatto che a Giancarlo Caselli sia stata sbarrata la strada da un emendamento vergognoso, approvato dal Parlamento, proposto dall’allora senatore di An Luigi Bobbio e poi dichiarato incostituzionale. Ma la nomina di Grasso è stata votata all’unanimità dal Csm, e non esiste la prova che, con Caselli in corsa, le cose sarebbero andate diversamente”.

E sul “premio” a Berlusconi?
“Ho ascoltato l’intervista di Grasso alla “Zanzara”, il ragionamento era diverso e sottolineava come il governo di centro destra avesse approvato norme particolarmente positive, ad esempio in materia di misure di prevenzione. Sono d’accordo anche io. Poi, Berlusconi ha tenuto su questo fronte anche tanti altri comportamenti censurabili. Ma se vogliamo, è anche questa un’anomalia tutta italiana”.

Che pensa dei magistrati in politica?
“Sono servitori dello Stato che continuano a servire lo Stato. L’Italia è proprio uno strano Paese, che non si è scandalizzato quando in Parlamento sono andati pornostar, condannati per mafia, esponenti di logge deviate dei servizi, e trova da ridire se si candida un giudice o un pm”.

E allora, per quali ragioni ha rinunciato?
“Sarebbe stata un’avventura stimolante, non lo nego. Ma ci ho riflettuto a lungo, e ho capito che la mia strada è quella di fare il magistrato. Per almeno un altro anno resterò in Cassazione, poi vorrei tornare ad occuparmi di quello che so fare meglio, possibilmente in una Procura. Intanto, a titolo gratuito, inizierò una nuova esperienza come docente all’Università Suor Orsola”.

Non teme che, in Parlamento, si parlerà di mafia e non abbastanza di camorra?
“Non mi permetto di dare consigli. Ma dai nomi che leggo, trovo che la possibile candidatura della giornalista Rosaria Capacchione rappresenterebbe un segnale importante in questa direzione. Sarei felice se come successore di Grasso alla Dna venisse nominato l’attuale procuratore di Salerno, Franco Roberti”.

Ne ha parlato con Roberto Saviano, di questa sua decisione?
“Ne abbiamo discusso, sì. Ha condiviso la mia scelta”.

“Vent’anni” dalle stragi. Incontro-dibattito all’I.P.I.A. Marconi di Giugliano

Vent’anni da Capaci. Vent’anni da via D’Amelio. Due stragi, due uomini che hanno segnato la storia del nostro Paese. Non abbiamo dimenticato, non dimenticheremo.   Attraverso le pagine del libro edito da Salvatore Coppola, “Vent’anni”, AA.VV. a cura di Daniela Gambino ed Ettore Zanca, Libera Giugliano insieme a Giovanni Conzo (sostituto Procuratore della Repubblica presso la DDA di Napoli); Raffaele Sardo (Giornalista e Scrittore, tra gli autori del testo); Vincenzo Viglione (Libera Giugliano – Wrong trasmissione web radio); la Prof. Rosanna Scialò (coordinatrice resp. progetti legalità dell’Istituto Marconi) ed il Preside dell’I.P.I.A. Marconi, Ing. Francesco De Rosa, ripercorrerà questi venti anni trascorsi in assenza di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Assenza fisica. Che loro, non hanno mai smesso di vivere, nel cuore e nelle idee di chi crede e resiste. Contro tutte le mafie.
(Elaborazione grafica locandina: Vincenzo Viglione)

“L’antimafia vent’anni dopo Falcone” – Raffaele Cantone, in Riflessioni, su Il Mattino di Napoli, ed. naz. di giovedì 17 maggio

Il 23 maggio e il 19 luglio prossimi ricorrerà il ventennale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, che videro la morte rispettivamente dei giudici Falcone e Borsellino e dei loro valorosi uomini delle scorte.
Le tantissime manifestazioni in programma, intrise di sincera commozione, ma anche di un pò di retorica e di ipocrisia, rappresentano l’occasione per una riflessione su quei fatti che hanno cambiato il corso della nostra storia recente.
Su entrambi gli eventi delittuosi ancora oggi, malgrado le tante indagini e i processi celebrati, non sono stati fugati tutti gli interrogativi, pur potendo ritenersi accertato che Cosa Nostra sia stata l’esecutrice e l’ideatrice degli stessi.

Perchè si scelse di ammazzare Falcone con un attentato in stile libanese, quando i “picciotti” mandati a Roma a seguire il giudice avevano assicurato che si poteva colpire senza tanto clamore?
E chi avvisò, gli esecutori materiali della partenza del magistrato e di sua moglie da Roma, tanto da consentire di essere al posto giusto per far esplodere l’ordigno?
E poi c’è un collegamento, tra chi ha attuato la strage e coloro che due anni prima avevano nascosto candelotti di dinamite sulla spiaggia dell’Addaura?
E perchè ammazzare Borsellino, in quel momento storico, aggiungendo clamore a clamore?
Chi sottrasse la famosa agenda rossa dall’auto del giudice ancora in fiamme? E perchè, i tanti depistaggi successivi e l’autoaccusa per reati gravissimi di chi nulla aveva a che vedere con la strage?
E infine, come mai solo oggi tanti uomini delle istituzioni parlano di una trattativa intavolata fra pezzi delle istituzioni e mafia, proprio a cavallo delle due stragi?
Si tratta di alcune delle tante domande, le cui eventuali risposte sono necessarie per voltare pagina, archiviando definitivamente stagioni di ambiguità compiacenti e individuando chi eventualmente scese illegittimamente a patti con i boss e/o non fece il proprio dovere di servitore dello Stato.

Ma quelle morti non lasciano, per fortuna, solo inquietanti interrogativi, ma anche eredità positive. Ogni giorno che passa dimostra l’incredibile lungimiranza dei due giudici; dai loro scritti e dalle interviste pubbliche emerge evidente come avessero non solo compreso a tutto tondo il fenomeno mafia, ma anche come affrontarlo.
Sono loro (con i colleghi e gli investigatori che hanno condiviso quella stagione di indagini), del resto, ad avere tracciato la strada delel investigazioni sulle mafie; il modello del famoso pool dell’ufficio istruzione di Palermo, tradotto in legge grazie a Falcone giunto al ministero della Giustizia, è divenuto uno strumento operativo indispensabile per il contrasto delel consorterie criminali.
La consapevolezza, poi, della necessità di aggredire i patrimoni mafiosi e di concentrarsi sulla zona grigia delle collusioni degli imprenditori e degli uomini delle istituzioni, ritenute più pericolose della stessa ala militare, sono un’intuizione i cui frutti oggi si cominciano a cogliere. L’importanza dei collaboratori di giustizia, ma anche il rigore assoluto nella loro gestione (Falcone fu il primo a incriminare per calunnia uno pseudopentito che cercava di propinare balzane sui rapporti con la politica!), la necessità di introdurre misure restrittive per le detenzioni dei capicosca, l’idea di specializzare sempre più magistrati e polizie sulle specificità delle tecniche investigative in materia sono un loro patrimonio, in seguito acquisito da tutti gli attori dell’antimafia giudiziaria.
Ma c’è un lascito sul piano culturale che, credo, sia in assoluto il più importante; l’uscita dal circuito autoreferenziale di un’antimafia tutta basata su indagini, arresti e processi, ribadita tante volte negli incontri pubblici e nelel scuole da quei giudici, antesignani, quindi, di una battaglia che, accanto al momento repressivo, metteva quello culturale, divulgativo in funzione del coinvolgimento di pezzi della società civile, necessari per drenare il consenso di cui le mafie godono.

E però, va purtroppo aggiunto, Falcone e Borsellino non sono stati ripagati in vita di quanto di straordinario avevano fatto; quante ingiuste critiche e persino astio e livore si è alzato contro di loro da parte non solo dei mafiosi (e questo era logico e prevedibile), ma da tanti che a chiacchiere si schieravano sulle sponde opposte e che forse, nelle imminenti manifestazioni, per far dimenticare i loro comportamenti di un tempo, saranno fra i più accesi sostenitori della retorica del ricordo.
Le polemiche pretestuose sui professionisti dell’antimafia, le accuse di carrierismo, di spregiudicatezza, di politicizzazione, giunte persino, nei confronti di Falcone, alla cattiveria di affermare che insabbiava indagini sui rapporti con la politica.
Anche pezzi (minoritari per fortuna), della magistratura, del resto, ebbero una parte in questo coro; come non ricordare i commenti sprezzanti, intercettati al telefono, di un importante giudice della Cassazione contro i due siciliani, apostrofati come beceri ignoranti, i bastoni fra le ruote posti da un Csm che non seppe sempre scegliere nelle nomine e che si mosse in una logica da vero equilibrista, fino allo sciopero proclamato contro la riforma voluta da Falcone.
In questo contesto vanno lette le parole di Borsellino, ricordate in questi giorni in un processo a Palermo da magistrati, all’epoca suoi giovani uditori; lo sentirono, in un impeto di rabbia, qualificare la procura di Plaermo come un “nido di vipere”!
E questo atteggiamento schizofrenico nei confronti di chi fa il proprio dovere ha il sapore di un refrain di cui urge assolutamente liberarsi, chiedendosi perchè bisogna sempre attendere la morte per riconoscere a certi uomini meriti e valori?

“Il sistema è marcio, serve pulizia subito” – Raffaele Cantone, ne L’analisi, su Il Mattino di Napoli, ed. naz. di martedì 20 marzo 2012

Capita spesso quando si discute, nel corso di dibattiti e convegni, della “zona grigia” o degli “uomini cerniera”, per indicare quei personaggi che fanno da tramite fra mafie e mondo dell’economia e degli affari, di incontrare lo sguardo di qualcuno dei presenti, intriso di evidente scetticismo.
Non bisogna essere un fine psicologo o un indovino per capire cosa sta pensando quella persona: “Ecco il solito magistrato che vede mafia dovunque! Ma perchè dare  così importanza a quattro delinquenti, estorsori o assassini che ci sono sempre stati e ci saranno sempre? Che cosa c’entra questa gentaglia con l’imprenditoria e l’economia?”
Poi arrivano indagini come quelle di ieri, condotte con professionalità dalla Procura e dalla Guardia di finanza, che vedono in un unico calderone esponenti della camorra, un gruppo imprenditoriale fra i più grossi fra quelli operanti in Campania, pubblici funzionari, professionisti noti in città e giudici tributari e persino le visioni più pessimistiche sulla capacità di infiltrazione delle organizzazioni mafiose sembrano sbiadire a ipotesi scolastiche.
Se il quadro investigativo sarà confermato – e la cautela è d’obbligo visto che si è ancora in fase di indagini – emergono scenari che definire inquietanti è poco; i soldi di un clan camorristico , fra i più solidi e radicati nel territorio, sarebbero finiti in un gruppo imprenditoriale di primissimo piano, capace di operare nei settori più svariati che vanno dal turismo, all’edilizia, al settore alimentare e ad altro.
Questo gruppo, a sua volta, avvalendosi di importanti professionisti cittadini riusciva, fra l’altro, ad ottenere sentenze favorevoli da parte della giustizia tributaria, evitando di conseguenza di pagare cospicui tributi.
E su quest’ultimo aspetto dall’indagine si apre uno spaccato ancor più preoccupante, sopratutto in un momento storico in cui sembra finalmente diventato centrale il tema della lotta all’evasione fiscale.
Sono stati raggiunti da ordinanze cautelari, infatti, ben sedici giudici tributari nella quasi totalità operanti presso le commissioni tributarie napoletane, alcuni dipendenti delle cancellerie delle commissioni medesime ed un funzionario dell’agenzia delle entrate.
Un vero record, di cui certamente non andar fieri!

Dal provvedimento restrittivo e dalle parole dei magistrati della Procura di Napoli e degli ufficiali della Guardia di Finanza che hanno illustrato l’indagine si comprende che vi era un sistema di corruzione molto ampio e capillare, capace di direzionare le decisioni di alcuni giudici tributari in senso favorevole ai contribuenti… e non perchè avessero ragione.
Esistevano, cioè, professionisti in grado di risolvere ogni genere di problema tributario, ottenendo l’annullamento o la riduzione degli accertamenti degli uffici – che tradotto in italiano significa evitare di pagare tasse a volte anche per milioni di euro – grazie alla corruzione di un certo numero di coloro che avrebbero dovuto decidere in modo imparziale sulle controversie con il fisco.
E da ieri, da quando si è data notizia dell’indagine, che tutti i giornali on line stanno spiegando che i giudici tributari non sono magistrati di carriera; sono giudici onorari, cittadini qualsiasi, cioè, che vengono scelti su loro domanda e che siano in possesso di titoli i più vari (chi fosse curioso può guardarli leggendo l’art. 4 del decreto legislativo n. 545 del 1992), che vanno dall’essere magistrati ordinari o speciali (i presidenti delle sezioni lo debbono essere necessariamente), ad essere laureati in giurisprudenza ed economia, ragionieri, ex dipendenti pubblici fino all’essere iscritti all’albo degli ingegneri, geometri, periti edili, agronomi con una certa anzianità di professione.
Ed è questo, il punto su cui è assolutamente inevitabile una riflessione, in parte già avviata dal legislatore negli anni scorsi.

Una domanda sorge infatti spontanea; possono occuparsi delle controversie più importanti per la vita dello Stato – e che possono andare dalla cartella esattoriale di 100 euro a quelle per svariati milioni di euro, che possono riguardare il povero Esposito Gennaro, o imprenditori ricchissimi e potenti, in qualche caso persino legati alla criminalità – giudici non professionali, non sempre nemmeno dotati di specifiche competenze?
Come non ricordare il famoso geometra “Pasqualino”, proveniente da un paese dell’Avellinese, giudice tributario dalle mille introduzioni e dai tantissimi rapporti inattesi, incappato poi nelle indagini sulla cosiddetta P3?
E’ vero che le generalizzazioni sono pericolose e che ci sono giudici tributari validi, professionali ed integerrimi, ma il problema prescinde ovviamente dai singoli per riguardare il sistema.
E’ un argomento di riflessione su cui probabilmente oggi non si riuscirà a trovare una soluzione, non potendosi certamente pretendere dal governo tecnico di intervenire anche su questo spinosissimo problema, ma su cui in un prossimo futuro sarà ineludibile intervenire.
Ciò che si può e si deve chiedere a gran voce da subito è che gli organi di autogoverno della giustizia tributaria (esiste anche un CSM tributario), applichino con grande rigore le norme sulle incompatibilità previste dalla legge, per evitare ciò che pure si intravede nelle indagini, e che cioè ci possano essere professionisti formalmente non esercitanti più la professione, ma che continuino, anche per interposta persona, a svolgere il doppio ruolo di consulenti dei contribuenti e di giudici delle cause con il fisco.
Se la giustizia tributaria non funziona o funziona male, la lotta all’evasione resterà un’affermazione davvero molto teorica.  

 

 

“Il tramonto di Gomorra” – Raffaele Cantone, ne “L’analisi”, su Il Mattino di Napoli, ed. naz. di giovedì 8 dicembre 2011

L’arresto di Michele Zagaria, il più importante latitante di mafia (palma che si contendeva con il trapanese Matteo Messina Denaro), è un fatto importantissimo, atteso e sperato non solo negli ambienti investigativi, ma anche da moltissimi cittadini qualsiasi. Era, in verità, nell’aria che le indagini della Dda di Napoli e della Polizia stessero per avvicinarsi al covo caldo in cui si nascondeva “cuoll stuort”.
A tal punto che il Procuratore Lepore, uomo sempre cauto nelle sue affermazioni, sabato scorso parlando al convegno organizzato dal Comune di Napoli aveva pronosticato di poter “festeggiare” quest’arresto, prima che maturasse il giorno della sua pensione, fissato per il prossimo 14 dicembre.
Zagaria è stato arrestato in casa di un incensurato, un insospettabile non noto alle forze dell’ordine, sita nel piccolo paese del Casertano dove ha iniziato la carriera criminale (Casapesenna) e dove probabilmente è (quasi) sempre rimasto durante la sua lunghissima latitanza di oltre 16 anni. Circostanze, queste, che possono meravigliare soltanto i non addetti ai lavori; un capocosca, pur muovendosi con logiche sempre più moderne di tipo ormai imprenditoriale, non può comunque fare a meno di mantenere il contatto con il “suo” contesto che gli può permettere di individuare luoghi e persone sicure per una latitanza duratura come la sua.

La cattura del latitante, merito di un’indagine lunghissima e perfetta che ha utilizzato tutti i più moderni e sofisticati strumenti tecnici certifica, a mio modo di vedere, la fine del più importante clan camorristico campano, quello divenuto famoso come “gomorra” perchè identificato con il titolo del fortunatissimo libro di Saviano.
Quel sodalizio che a differenza di tutti gli altri ha una data di nascita precisa – e cioè il 26 maggio 1988, giorno in cui venne ammazzato Antonio Bardellino – con ieri ha (forse) anche una data di chiusura della ditta, almeno intesa in quei tratti che l’avevano caratterizzata.
Zagaria, infatti, era l’ultimo esponente in libertà di quel gruppo nato e formatosi attorno a Bardellino e che da questi aveva mutuato la vocazione agli affari ed al reinvestimento dei proventi nelle imprese edili e nei servizi ed il legame quasi indissolubile con pezzi della politica e delle istituzioni.
Ed in questo senso la coincidenza con gli arresti avvenuti l’altro giorno di alcuni dei referenti del mondo istituzionale ed imprenditoriale, ulteriormente fornisce la riprova quasi plastica che la pagina è stata voltata.
Ovviamente, questa considerazione – che è un’idea di chi, come me, ormai guarda da lontano le vicende criminali e che come tale potrebbe essere anche non corretta – non significa affatto che l’arresto di ieri abbia liberato quel territorio dalla camorra. Già da altre recenti indagini della Procura partenopea – che ha dimostrato di riuscire ad ottenere risultati eccezionali su tutti i fronti del potere mafioso – emerge una nuova struttura operante su quel contesto, composta di giovanissimi legati in qualche caso con vincoli di parentela ai boss in carcere, particolarmente violenti e dediti all’uso di cocaina che riempiranno gli spazi inevitabilmente vuoti, ricominciando dalle estorsioni a tappeto e dalla gestione (palese e senza più infingimenti ipocriti del precedente gruppo) del traffico di stupefacenti.
Bisognerà capire se e fino a che punto queste nuove leve erediteranno quel fitto tessuto di legami con i mondi altri e se essi saranno gli interlocutori di un sistema affaristico-mafioso che ha messo radici non solo nella provincia di Caserta ed in Campania e che non viene automaticamente ereditato con l’arresto di ieri.

Ci vorrà ovviamente del tempo per comprendere dinamiche non certo lineari e razionali come quelle criminali; oggi si può comunque fare un’altra considerazione: non credo di esagerare se considero l’arresto di Zagaria una vera iniezione di fiducia e di ottimismo per un paese in enormi difficoltà. Dimostra in modo plastico come le istituzioni (i cosiddetti apparati) siano in grado di assicurare risultati importantissimi anche in assenza di vertici ministeriali che vogliano intitolarsi meriti esclusivi ed in momenti in cui lo Stato nel suo complesso pare barcollare sotto il peso di una clamorosa crisi economica.
Ne ho avuto riprova ieri mattina, quando, come relatore di un convegno sulla corruzione al ministero degli Esteri dove partecipavano tutti i vertici di quel dicastero e a cui era presente il ministro della Funzione pubblica, dovendomi scusare di aver risposto al cellulare, ho spiegato la ragione della telefonata.
Nella sala è risuonato un applauso convinto e liberatorio da parte di una platea che, pur sentendo il fenomeno “mafie” come realtà lontana, ha colto nel successo investigativo un segnale di un’Italia che malgrado tutto, vuole farcela.

“La mafia innominabile”, di Domenico Seccia, presentato a Foggia, con Raffaele Cantone: martedì 8 novembre 2011

Il libro ‘La Mafia Innominabile’ di Domenico Seccia, sarà presentato a Foggia martedì 8 novembre dalle ore 18.00, nella sede di Palazzo Dogana (Piazza XX Settembre, 20).
Presentazione organizzata dalla Provincia di Foggia e dal Coordinamento Provinciale di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
L’autore del libro è stato sostituto procuratore a Bari, dove nel 2003 è entrato a far parte della Direzione Distrettuale Antimafia; attualmente ricopre l’incarico di Procuratore della Repubblica di Lucera.
All’incontro interverranno, oltre all’autore del libro: Raffaele Cantone, magistrato e scrittore; Elvira Zaccagnino, Presidente della Casa editrice ‘La Meridiana’; Daniela Marcone, responsabile del Coordinamento Libera Foggia; l’avvocato Raul Pellegrini. 
Introduce e modera il giornalista Micky De Finis. Nel corso della presentazione, si terrà la lettura di alcuni brani a cura di Michele d’Errico, della compagnia teatrale ‘Il Cerchio di Gesso’ di Foggia.

(Ringraziamo Michele Carelli, per Teleradioerre).
Violenta, sopraffattrice e sterminatrice”. Non usa mezzi termini, Domenico Seccia, Procuratore Capo di Lucera, nel definire l’atavica lotta armata tra gli allevatori del promontorio. Violenta, sopraffattrice e sterminatrice questa è la faida del Gargano,  fabbrica, da oltre 30 anni, di morte e terrore. Non risparmia espressioni forti neppure
nelle pagine del suo ultimo lavoro editoriale ” La Mafia Innominabile,” pubblicato dalla edizioni la Meridiana nella collana “passaggi”. “L’idea del titolo “innominabile”   nasce – afferma il Procuratore –   durante una sentenza nella quale si diceva che la faida non poteva essere chiamata mafia  poichè non ne  aveva i contorni e si  parlava di un fenomeno mafioso più immaginario che reale. A mio avviso era una concettualizzazione di un lessico inesistente perchè non appropriato ai fatti reali. Il libro ha voluto – continua Seccia – riprendere questo passaggio che testimonia sostanzialmente come si è
concepita la mafia garganica”. 164 pagine, per raccontare di una faida di pastori nata all’ombra del santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, il più famoso luogo di culto micaelico dell’occidente latino (…) 

(Tatiana Bellizzi, per Teleradioerre).

A lezione dal “Maestro” Cantone. In una libreria, nel centro di Caserta, un giorno di fine gennaio.

Venerdì, 28 Gennaio 2011, Raffaele Cantone ritorna a Caserta, per presentare il suo secondo libro “I Gattopardi”.
Lo vedi, arriva. Eh, sì, quando arriva te ne accorgi dalle sirene delle sue due auto blindate, che ti costringono a voltarti, anche quando non vorresti. Eccolo, scendere da una delle due auto.
All’improvviso sparisce abbracciato dalla protezione benevola degli angeli della sua scorta.

Poi riappare con una certa leggerezza che gli accarezza il volto e gli taglia il sorriso.
E pensi: ” In quel sorriso ed in quella solarità si nasconde il diritto, l’amore per la giustizia”.
Quell’amore che lo ha portato a Caserta, perchè è in questo territorio, a Gomorra che ha riversato il suo amore, solo per giustizia.
Si siede e saluta l’intera folla che lo aspettava. Rivedi qualche solito volto, quello di alcuni “intellettuali” della città ma con somma gioia ti accorgi che poi ci sono soprattutto gli occhi e le mani del futuro, i giovani. Tra i tanti scorgo, in fondo, suor Rita Giarretta con una sua consorella. Suor Rita che è una di quelle tante o poche persone che si batte per cambiare questo territorio difficile. E ci crede, eh? Come noi, d’altronde.

Il giudice comincia a rispondere alle domande. Lo fa con quella convinzione che da sempre ha caratterizzato il suo essere, quel crederci appunto. Quella “carnalità” di chi ama il suo lavoro (ma siamo sicuri che per lui quello del magistrato sia un lavoro?). E quando ricorda i suoi tempi “in prima linea”, gli si accende lo sguardo. Ed allora lì ti coinvolge, a pieno. Il pubblico, i ragazzi diventano un tutt’uno con Raffaele. Una luce che in questa terra si ingloba e ti acceca. Ti ispira e ti invita a seguirlo e dice:”Guarda, ce la possiamo fare!”.
Lo vedi, un pò si sente a casa.


Ad un certo punto cambia espressione. E’ serio, anzi, piuttosto professionale. Con un linguaggio tecnico, ma comprensibile a tutti, comincia a sottolineare le dinamiche dell’evolversi della criminalità organizzata. Da “coppola e lupara”, a “giacca e cravatta”. I colletti bianchi, appunto.
La folla allora comincia a concentrarsi di più ed annuisce. Vuole capire. Le presentazioni di Cantone sono delle vere e proprie lezioni.
Sottolinea l’importanza di un approccio non solo giudiziario al fenomeno, ma anche squisitamente sociologico. Lavoro che troppo spesso la stampa non riesce a fare. Sono solo pochi i giornalisti che oggi “indagano”.
E forse ha ragione, oggi anche la professione giornalistica è divenuta un business: l’importante è fare scoop e vendere.
Raffaele è sempre più preso dal suo discorrere. Acquista una certa severità il suo sguardo.
E’ gettato in quel che dice. Ovvio, crede e sente le sue convinzioni di libertà e giustizia.
Gli viene chiesto di discorrere un pò sulla questione politica. Risponde che si necessita di tenere conto delle peculiarità delle diverse zone italiane. Chissà perchè; le primarie del Pd hanno fruttato a Bologna e a Napoli c’è stato un bel pò di caos.
Sottolinea:” Io sindaco?”. Eh, sì, negli ultimi giorni anche l’amico Roberto Saviano l’aveva invitato a farsi avanti.
La sala tace, si aspettano tutti un sì, forte. Ma Raffaele ancora una volta non delude chi vede in lui la vitalità e la concretezza della verità. La severità e la professionalità lasciano spazio alla coerenza dei suoi insegnamenti.
Alle persone coerenti cui ha in parte dedicato il lavoro che viene a presentare.
E risponde, che seppur non contrario alle diverse rappresentanze professionali in Parlamento (anzi vi rivendica il ruolo degli insegnanti), ritiene che i magistrati possano fare politica, ma l’importante è poi operare delle scelte univoche e precise. Ma al giudice lasciamo fare quello che sa fare, appunto, il magistrato.
Si reputa felice di aver lasciato la procura (non è più procurocentrico, come dice).
In fondo, ognuno, nel corso della propria vita, non può sempre fare la stessa cosa, è giusto che cambi.
E così, oggi, è giunto al Massimario e si occupa di diritto tributario.
Una materia che nemmeno c’era nel suo piano di studi, contraddizioni all’italiana.


Riforma della giustizia? Pensiamo a velocizzare i processi. Per una multa tre gradi di giudizio sono un pò troppi; che la Cassazione si occupi di questioni tributarie degli anni Ottanta è assurdo.
I tempi della giustizia sono troppo lunghi. Per accertarne la lunghezza ( si riferisce al risarcimento che spetta al cittadino in caso di violazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, legge Pinto) sono ancora più lunghi. La lunghezza processuale si ripercuote sul comune cittadino; i potenti scelgono altre strade.
Sorride, ora è sereno. Auspica di tornare presto nel “merito” delle questioni di questa terra, non necessariamente da “procurocentrico”.
Si chiude la serata. Si alza. Lo circonda il “coro degli angeli”. E’ gentile. Firma autografi, fa foto con i ragazzi e si ferma a parlare con loro.
Esce, col suo corteo. Anzi, preghiamo i ragazzi della Guardia di Finanza di non lasciarlo mai. A noi serve integerrimo Raffaele Cantone.
Va via, con quelle sirene che ti accecano gli occhi. E’ andato via? No.
Ogni sua parola ti lascia qualcosa, ti riempie il cuore. La sua passione ed il suo amore per queste terre ti seducono. Capisci in fondo, che in ogni angolo di strada, sull’asfalto, tra le luci delle città che visita, tra la gente e negli occhi dei ragazzi, vedi che batte il cuore della giustizia, della voglia di libertà e riscatto.
Batte il cuore di Raffaele Cantone.

 (Grazie alla nostra amica Maddalena Letizia, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Nelle sue parole, nel suo entusiasmo per Quest’Uomo straordinario, tutto il nostro).