A vent’annni da Mani pulite e un iter parlamentare irto di ostacoli, nel novembre del 2012 è stata finalmente varata la legge ribattezzata “anticorruzione”.
Si tratta, in verità, dell’adempimento di un dovere assunto in sede di ratifica di varie convenzioni internazionali ma la legge va ascritta a merito del governo Monti e soprattutto alla caparbietà dei ministri della Funzione pubblica Patroni Griffi e della Giustizia Severino, che sono riusciti a trovare la quadra fra le posizioni distantissime dei partiti della “strana maggioranza”, anche se questa estenuante mediazione ha inciso sulla bontà del testo approvato. La riforma quindi deve considerarsi solo il primo passo di una serie di interventi ulteriori ed indispensabili, di cui dovrà farsi carico il prossimo Parlamento e governo.
Anzitutto, è necessario che vengano rapidamente resi operativi gli organismi e i meccanismi introdotti con questa legge. La nuova autorità nazionale anticorruzione; il piano anticorruzione di cui ogni amministrazione deve dotarsi, nominando un responsabile, che può essere chiamato a rispondere sul piano disciplinare delle inosservanze; gli obblighi di trasparenza e pubblicità per le attività amministrative; i vincoli per il passaggio di pubblici ufficiali nelle aziende privare.
Raffaele Cantone
(Ilaria Ascione ph. per wrongradio.com)
In questa fase, è indispensabile evitare che i tanti adempimenti richiesti alle amministrazioni centrali e territoriali non si trasformino in inutili e gravosi oneri burocratici. Troppi “piani” sono stati chiesti agli enti negli ultimi anni senza che nessuno si curasse di verificarne l’utilità concreta.
Del resto è ancora necessaria l’emanazione di altri decreti attuativi, ma forse da subito andrebbe rivista e migliorata anche la normativa adottata di fretta dall’attuale governo sulle incandidabilità. Le scelte dei partiti in campagna elettorale e il caos che si è verificato per alcune esclusioni di “impresentabili” dimostrano che non si è ancora del tutto maturi per valutazioni squisitamente etiche da lasciare ai partiti.
Bisogna avere il coraggio di adottare norme più restrittive che escludano la candidabilità per qualunque carica (locale o nazionale che sia) per i rinviati a giudizio per reati di mafia e per i condannati anche in primo grado per i reati contro la pubblica amministrazione.
In questa prospettiva, visto il legame forte che c’è soprattutto in certi contesti territoriali fra mafie e corruzione, andrebbe anche resa più stringente la normativa sulle infiltrazioni mafiose negli enti locali. Bisognerebbe ampliare i casi in cui viene negata agli amministratori coinvolti negli scioglimenti la possibilità di candidarsi. E consentire lo scioglimento per mana delle società miste o partecipate e, perché no, anche dei consigli regionali.
Sempre nell’ortica della prevenzione (e alla luce di quanto sta emergendo dalle indagini sulle distrazioni dei fondi pubblici destinati non solo ai partiti) sarebbe opportuno imporre la massima pubblicità per i contributi di qualsivoglia genere erogati dalle amministrazioni e il dovere di rendiconto per chi li ha ricevuti. Con l’obbligo di richiedere la restituzione nel caso in cui non siano utilizzati per gli scopi prefissi e con la possibilità del controllo esterno della Corte dei conti.
È arrivato il momento di adottare una legge che regoli la vita interna dei partiti, anche in ossequio a quanto previsto dall’articolo 49 della Costituzione, introducendo come obbligatorio il metodo democratico interno ed imponendo criteri di trasparenza per la redazione dei bilanci e l’obbligo di indicare tutti i contributi pubblici e privati. Per renderlo più incisivo, sarebbe persino auspicabile che particolari responsabilità gravassero su chi gestisce le casse dei partiti: porrebbero essere considerati pubblici ufficiali e quindi assoggettati alle stesse regole che valgono per il ragioniere capo di un qualsiasi ente. In entrambi i casi si maneggia denaro pubblico e quindi andrebbe richiesto il medesimo dovere di fedeltà.
Regole analoghe andrebbero estese alle fondazioni o associazioni di carattere politico che negli ultimi anni si sono moltiplicate, sostituendo spesso le vecchie correnti e spostando fuori dai partiti anche alcune attività tipiche degli stessi. In una democrazia della trasparenza è necessario che si sappia chi sono i finanziatori di queste strutture e come vengono spesi i denari che a loro giungono, per evitare conflitti di interessi ed un esercizio lobbistico del potere politico.
A proposito di lobby, bisogna mettersi in linea con gli altri Paesi occidentali; le lobby che agiscono in trasparenza non sono un male per la democrazia, ma solo se ci sono regole chiare, conoscendo chi opera e per conto di chi. Il rischio da evitare è che certi lobbisti, scoperti dalle indagini giudiziarie degli ultimi anni, diventino di fatto i veri titolari dei poteri decisori in molte branche dell’amministrazione.
Gli enti pubblici, soprattutto quelli territoriali, dovrebbero limitare (se non del tutto dismettere) le attività imprenditoriali.
Quanto è emerso sul malaffare delle società create da Comuni e Regioni o ancora più di recente con le fondazioni bancarie controllate dai medesimi enti dimostra i rischi di distorsioni. Gli enti pubblici si limitino a svolgere funzioni soprattutto di controllo, senza sovrapposizioni fra controllori e controllati! Anche per questo, non si può più rinviare il varo di una disciplina vera sul conflitto di interessi che prescinda dalle polemiche, spesso strumentali, che hanno riguardato l’onorevole Berlusconi: oggi ci sono nel rapporto pubblico-privato tantissime ipotesi di conflitto di interessi che minano l’imparzialità delle istituzioni.
Molto resta da fare anche sul piano della repressione penale. Tra le ultime norme approvate vanno subito riviste quelle sul traffico di influenze, che punisce chi sfrutta le relazioni con un pubblico ufficiale per ottenere vantaggi (la cui pena non permette l’arresto né le intercettazioni ed è quindi poco efficace) e quella sulla corruzione fra privati, che di fatto non consente di stroncare le mazzette pagate ai dirigenti delle società private, per ottenere commesse o appalti.
Gran parte degli organismi internazionali che hanno radiografato in questi ultimi anni l’Italia, sono poi assolutamente d’accordo su un punto: va ripristinato il falso in bilancio. Nelle pieghe della contabilità delle società si nascondono spesso i fondi neri per pagare mazzette e la sostanziale depenalizzazione è stato uno dei peggiori risultati legislativi degli ultimi anni.
Andrebbe rivista in modo complessivo anche la materia dei reati tributari. Non bisogna necessariamente punire tutte le ipotesi di evasione o elusione con sanzioni penali (anzi), ma bisogna prevedere pene severe per i fatti più gravi: con le norme attuali nemmeno Al Capone avrebbe fatto un giorno di carcere per evasione fiscale!
Soprattutto nella legislazione penale andrebbe messa mano alla normativa sulla prescrizione. I tempi entro i quali il reato di corruzione si estingue restano troppo brevi e non consentono di arrivare a una sentenza di condanna. Sarebbe auspicabile la totale abrogazione della legge Cirielli che ha finito per favorire solo i colletti bianchi o comunque andrebbero, da subito, equiparati i delitti contro la pubblica amministrazione, quanto a prescrizione, a quelli in materia di mafia. Questo riguarda anche il voto di scambio, che oggi si prescrive in tempi risibili e nel caso delle cosche punisce solo il pagamento in denaro delle preferenze, offrendo strumenti limitati per stroncare l’intervento dei clan nelle competizioni elettorali.
Ed ancora bisognerebbe rivedere le disposizioni sulle pene accessorie: chi è condannato per reati contro la pubblica amministrazione o per delitti comunque gravi non deve ritornare negli uffici di provenienza o in altri analoghi. Le logiche troppo perdoniste delle commissioni disciplinari interne agli uffici hanno consentito ai condannati di restare al loro posto o persino di fare carriera.
Per intervenire sui patrimoni costruiti grazie alla corruzione sarebbe utile la punizione dell’autoriciclaggio anche nei reati contro la pubblica amministrazione; è un non senso che non venga sanzionata la ripulitura o il reinvestimento del denaro da parte di chi abbia intascato tangenti.
Infine, per spezzare il rapporto omertoso che lega corrotto e corruttore vanno garantite sia misure antidiscriminatorie il favore di chi denuncia, in analogia a quanto avviene per i whistleblowers dell’esperienza anglosassone sia individuati sconti di pena per coloro che collaborano con i magistrati.